giovedì 22 ottobre 2015

Il “lupo” di Fabia Ghenzovich

Fabia Ghenzovich: Totem, Edizioni Collezione Letteraria di puntoacapo, 2015

recensione di Vincenzo D'Alessio

La raccolta poetica che reca il titolo Totem di Fabia Ghenzovich è stata pubblicata presso le edizioni puntoacapo di Cristina Daglio a luglio di quest’anno, nell’esergo una citazione dello scrittore francese contemporaneo Christian Bobin: “Contemplare il fuoco che cova negli occhi di un lupo / e andare fino al limite del mondo.”
Il momento della contemplazione è un momento magico, della mente assorta in una visione del mondo al limite del reale, l’energia magnetica del fuoco aiuta il viaggiatore/cacciatore a tenere lontane le paure “del lupo”.
Il lupo è il totem scelto dalla Nostra per coinvolgerci nello sviluppo della trama poetico/filosofica che si svolge nelle due prime parti in assenza di luce, nell’ombra che promana dalla Natura e dalla violenza della presenza umana, più che animale, per raggiungere la terza parte dove la luce rende al lettore la realtà, lo porta a contatto diretto con il crudele mondo della civiltà umana di oggi.
Alla mente del lettore tornano le rappresentazioni del lupo nel corso della Storia reale e immaginaria: il lupo / totem delle popolazioni dell’Italia meridionale, i Sanniti Irpini (Hirpus), forte e fiero legato alle rituali “Primavere” quando i giovani venivano allontanati dalle tribù per evitare il conflitto padre/figli nei ruoli di comando. Il lupo di san Francesco d’Assisi che terrorizzava il territorio e che in realtà rappresentava forse un brigante con questo soprannome. Il lupo mannaro di tante leggende e racconti. Il lupo delle favole come quella di “Capuccetto Rosso”.
La scelta del lupo, della sua energia percepita attraverso il fuoco della sguardo e come totem pervade le prime due parti della raccolta: “Salivano all’odore della carne / fauci / tagliole pronte allo scatto / frecce / vertebre tese / verso l’età del coraggio / dell’uomo l’abitudine / il greve vassallaggio.” (pag. 8).  Si avverte, poeticamente, la volontà del confronto tra la primitività dell’uomo puro degli inizi e il pesante “vassallaggio” della civiltà che l’ha condotto all’uomo che conosciamo: non compartecipazione naturale ma violenza indotta dalla sofferenza delle trappole sociali, le fobie, le forzate abitudini, la convivenza alienante nelle megalopoli.
Il filo rosso del pensiero filosofico della Ghenzovich traspare in tutto il suo fulgore proprio quando il lettore coniuga la conoscenza delle proprie abitudini, “il suo olocausto quotidiano” (pag. 12) con la forza centripeta dei versi che seguono: “(…) E Jekyll non si nasconde forse in qualche cella / frigorifera del cervello?” (pag. 12). Cosa si nasconde in questo messaggio?
L’invito rivolto al lettore attraverso questa fulminea raccolta poetica è racchiuso nella poesia che apre la raccolta: “Tana era a falde la roccia / punte d’ossa e muscoli in tensione / nel balzo in avanti nel tempo / della pietra nel sangue / d’istinto un lupo per esempio / ecco quel che abbiamo perso / la prima vera pelle – la sola che ci salva.” (pag. 7).
L’umanità è intristita dalle necessità; manipolata nel pensiero dalla macchina del consumo; violentata dalle guerre per le poche risorse rimaste in questo piccolo pianeta: troppo piccolo per tanti miliardi di “(…) della razza senza pari / gli eretti i primi violentatori. / Noi.” (pag. 11).       
Fino a quando resisterà l’equilibrio pianeta vivente/umanità prima di deflagrare in un buco nero? Anche la stella “Sole” è stanca dell’inquinamento che giunge dal pianeta Terra e si sta trasformando in una stella buia.
Nel leggere questa prima parte, e la seconda “Loba”, sono tornate alla mente le deduzioni contenute nel volume Totem e Tabù di Sigmund Freud (Boringhieri, 1969), la presenza del totem come padre della tribù, l’oggetto dell’odio/amore verso la forza generante e la difesa attraverso i limiti, i tabù. Come nella lettura del romanzo il “Convitato di pietra”, dello scrittore spagnolo Tirso de Molina, tradotta in italiano dallo scrittore solofrano Honofrio Giliberti (nel XVII secolo), dal quale W.A. Mozart trarrà nel 1787 l’opera Don Giovanni.
La Nostra offre parte della sua anima al lettore, il convitato, che segue l’evolversi immaginifico della poetica si dilata in direzione dell’infinito, della ricerca, come spirito su acque profonde d’oceano. Un mito irraggiungibile nelle parole della Sibilla, quella Cumana più vicina a me, che nascondevano chissà quali verità e quale messaggio da parte della Divinità: “(…) sono stata né sono né di questa mia / da te libertà nulla potrai sapere / dell’affondo –” (pag. 22).
L’essenza della ricerca è in questa coraggiosa raccolta che raccoglie “pane e rose” (pag. 33), bellezza e quotidianità, immaginario naturale mutante sotto gli occhi disattenti di intere generazioni attratte dagli schermi invisibili dell’inutile: “Soffermarsi sulla necessità / deriva sotterranea conclamata / (…) nostra costrizione/ di silenzi sistemici” (pag. 33). L’invito è rivolto al lettore per conoscere l’energia reale dell’Amore, l’acqua della vita, la luce vera che scalda l’anima degli esseri viventi:

“(…) La possibilità della bellezza. / Calpestata negata e mai colta eppure perenne. / Basta fermarsi o essere fermati.” (pag. 34).

L’essenza della grande forza poetica di questa raccolta lascerà al lettore l’amaro in bocca, proprio come dopo una frenetica battuta di caccia al lupo, armati di un fucile di alta precisione, colpire la preda a distanza: da vicino quel lupo ha le sembianze di un uomo morto.

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