Antonietta Gnerre: I ricordi dovuti, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2015
Ad aprile di quest’anno presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma ha visto la luce la nuova raccolta di versi I ricordi dovuti, della poeta Antonietta Gnerre: irpina, temeraria, delicata nella scrittura come conviene ad una naturalista. La plaquette raccoglie ventisei nuove poesie ed una scritta a marzo del 2012 per i terremotati della città dell’Aquila.
L’esergo alla raccolta si affida agli affetti e alle parole dell’attuale Pontefice Francesco: “C’è sempre dell’altro.”
Sulla scorta di quest’invito, la Nostra mette a nudo i suoi anni, le stagioni, i ritmi, i colori, l’immensità della Natura in quelle anime riflesse nelle foglie degli alberi: alberi che restano forti nelle radici; fragili nelle foglie che nascono e finiscono al ritmo delle stagioni.
Le migliaia di foglie: volti appena conosciuti, amiche perse, amici smarriti, affetti lontani, sono la chioma di questo maestoso albero che svetta sulla collina come antenna verso l’immensità del cielo a chiudere la visione dell’orizzonte. I ricordi sono vivi fino all’estremo, sono la carta stampata lasciata alle spalle nella certezza che duri, la fragilità della loro fine nell’alta marea dell’Umanità. Nulla va perso! Solo diventa tutt’uno con la terra dove cadono e fermentano.
Lo scopriamo nella poetica della Nostra: “(…) Sono nella vita, eppure nella vita muoio / trattenendo le foglie dei miei ricordi.” (pag. 6) – “(…) In questo abitare l’istante / non scelgo bene né male: ” (pag. 7) – “(…) Tutte le notti appoggio la testa / Sul cuscino per separarmi / Dai nomi di cui sono fatta.” (pag. 22) – “Conosco a memoria le maschere che si accalcano dentro di me.” (pag. 23).
Leggendo questi versi ci viene da chiedere: chi è veramente la poeta?
La risposta non è semplice perché la vera Poesia insegna che il poeta non possiede soluzioni, si affida alla voce del Tempo e della Natura per restare nei ritmi delle stagioni in mezzo agli uomini: animali presuntuosi incapaci di guardare con attenzione i colori della Poesia che è seme che muore parlando: “(…) Il seme copre la paura, / Fino a stirarla tra il gelo. / Batte il sogno della radice. / La pace dell’erba. / Recita nel terreno a primavera. / Lo fa con la pioggia / Come un attore verso il margine / Della sua trasformazione.” (pag. 19).
Avvertiamo la contaminazione di questi versi avvicinandoli alla poesia Non gridate più di Giuseppe UNGARETTI: “Cessate d’uccidere i morti, / Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire, / Se sperate di non perire. / Hanno l’impercettibile sussurro, / Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba, / Lieta dove non passa l’uomo.”
La Nostra è il seme dei ricordi dovuti a sé stessa, al lettore e principalmente alla storia della memoria collettiva: “(…) Sono nella vita, eppure nella vita muoio / trattenendo le foglie dei miei ricordi. / Muoio guardando i morti nel sonno, / nel tempo prima dell’alta marea.” (pag. 6).
La fragilità dei ricordi è divenuta la forza del racconto poetico che spinge le impronte nel marmo dell’eternità. Così dobbiamo leggere questa matura raccolta di Antonietta Gnerre. In particolare quando riconosce la propria umiltà nel ricordo delle persone care che l’hanno preceduta e sono prematuramente scomparse dalla scena umana ma non dalla memoria collettiva che è divenuta Storia della Poesia.
Parlo di Maria Luisa RIPA (Irpinia, 1966 – Roma 2003) e della ripresa del suo ricordo nei versi della poesia a pag. 16: “(…) So chi sei stata e mi manca la misura del tuo nome, / Maria Luisa, che la preghiera delle foglie ti raggiunga, / adesso che non servono parole. / In quest’ora che assottiglia i miei anni.”
La bellezza dei colori dei ricordi: il verde (pag. 9); il bianco (pag. 10); il giallo (pag. 12); il viola (pag. 18); il nero (pag. 31). Oltre al colore i ricordi hanno il profumo della Civiltà Contadina della terra natale della Nostra, l’Irpinia con i suoi terremoti che la riportano alle antiche miserie della perdita di vite umane e dei tanti sacrifici costruiti con le rimesse degli emigrati. In questi versi ci sono codici che non riescono ad essere decodificati per la loro satura appartenenza ad una Natura/Madre benigna e maligna al tempo stesso.
Noi che leggiamo con attenzione questa raccolta sappiamo che ha messaggi più alti e che vanno più lontani, nella metafora della fedeltà di un cane, superando gli ostacoli che si pongono dinnanzi: “(…) Il mio cane, Stella, salta oltre le siepi, / controvento, negli spazi che ciondolano e rinascono / in altri confini.”
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