Se
da lontano ancora giungessero i rintocchi aerei delle campane dei
borghi che erano sparsi in questa valle che passa tra due meridiani,
se si potessero ancora sentire le grida dei bimbi e i richiami delle
donne, se ancora scorresse acqua in questo letto di pietre e ciottoli
e non solo vento che inaridisce e trasporta suoni inumani. Se le case
non fossero mute e le strade immobili. Se ancora ci fossero parole.
Parole, sì, parole. Saprei che l'attesa è finita e non sono solo in
questo percorso, che il destino si sta compiendo e siamo fianco a
fianco di fronte al nemico.
E
invece si accavallano solo gli echi lontani nel tempo e nello spazio
delle campane a morte, i battiti che presero a riverberare secoli fa
e ancora non si spengono nel vento che spazza questa valle nera e
arida. Che non ha alberi, né case, né rifugi. Questo impluvio che
non ha forma e ha solo una residua consistenza liquida. Ed è un
enorme abbraccio infido. Un ininterrotto inseguirsi di bande riarse,
dove l'unica pioggia è un piscio acido e sterile che dissecca la
terra, attraverso il vetro di questo treno che trafigge l'ultima
valle, tra le colline attorno ai luoghi delle battaglie, che mi porta
verso un confine ignoto e che affolla i miei sogni ogni notte. Un
confine rosso, di sangue e cadaveri in mezzo a moltitudini che si
illudono di dimenticare danzando, nelle notti alterate.
Un
confine di parole disperse.
Di
attimi.
Di
occasioni mancate.
Simone
Zanin
(da
Nuova Vandea, Edizioni Officine Ultranovecento, 2013)
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