recensione di AR
È ricolmo di
suggestive “fotografie” questo Alfabeto dell’invisibile che potremmo definire una radiografia della propria anima
fissata sulla lastra della città-madre (alla quale Chiara De Luca è ritornata dopo due
decenni vissuti in altri luoghi: “Dopo vent’anni in silenzio ti ritorno”, cosi
si apre la prima sezione, appunto “Ritorno”) con i suoi angoli-ricordo, i suoi
sapori-nostalgia, le sue voci-emozioni. È un viaggio che appoggia la vista sui
particolari e li rende palpitanti, una digressione che segna una tappa
importante del proprio andare (il ritorno non è mai regressivo, ma un procedere
a partire dal cammino fatto). È un “fare il punto” con la empatica e discreta
complicità del lettore, con la fiducia che solo il poeta sa dare alle parole,
alla loro bellezza cruda e splendida (“Leggere le pagine del lago / sfogliano
le dita dei salici / – le mie le ho bruciate nelle mani”, Parco Bassani I, p. 27, si noti l’ambiguità sintattica
verbo/aggettivo di “leggere” che solo nel verso successivo viene sciolta) che
sa farsi eco di sensibilità e visioni del mondo per abbracciare gentilmente la
nostra fatica di vivere, come notiamo in particolare nella IV e ultima sezione “Mare” di cui
proponiamo per intero la poesia a p. 128 anche come exemplum metrico (versi di lunghezza e scansione ritmica variabile
sono non di rado intercalati da endecasillabi più o meno “nascosti”):
Non ha ponti il mare come i fiumi
né alti e impervi valichi di monti
né il guado del ruscello per varcarlo,
ma puoi volargli oltre con lo sguardo
nell’acqua del tempo ritrovarti al largo
tenendoti saldo al parapetto del ricordo
Un’opera radicale, una topografia poetica. La
parola “radici” assieme a “guscio” (“Amore è questo guscio duro che la vita /
da tempo ha consegnato alla sua assenza”, p. 123) e “nido” (“questo è il posto giusto per
planare”, Nido, p. 25) è ricorrente
in questa intensa raccolta della Ferrarese. Consideriamo alcuni versi che la
contengono: “L’albero grande ha l’ironia dei santi / che per millenni
schernirono i venti / nutrendo erbacce pazienti alle radici” (Parco Massari I, p, 22); “dove flessuose
danzano le dita / in ampie volute di radici la vita” (Parco Massari II, p. 33); “ti sento oggi come dall’assenza //
nell’inganno di vento delle radici” (Bologna
I, p. 62); (dilatare lentamente intorno alle radici / il raggio che origina
e nutre lo slancio” (A mia madre, p.
72); “si posano al suolo, non affondano radici, / hanno patria ovunque dentro e
nell’altrove” (Gusci, p. 75). Sì, è
un Alfabeto umilmente condiviso,
sobriamente sviluppato in versi sciolti, ma con una discreta presenza, come
dicevamo, dell’endecasillabo, stigma imprescindibile della nostra tradizione
che la Nostra ha ampiamente praticato unendola a una profonda conoscenza della
poesia contemporanea di varie espressioni linguistiche. Le pagine ci offrono
una voce matura, sobria, che conosce i punti di giuntura che fanno vibrare la
parola con armonia, senza esagerazioni… in definitiva vi troviamo uno stile
riconoscibile, efficace nella scelta delle immagini, negli scarti sintattici,
nei giochi calibrati che fanno risaltare le metafore, nel dire così
apparentemente fluido e calvinianamente leggero che è cifra di una grande
lavorazione a monte, di riflessione su un cammino non privo di prove e
lacerazioni… Citiamo alcuni versi tratti dalla seconda sezione “Stazioni”: “Ho
gettato quella tenda con l’ultimo trasloco / mesi prima come fosse il sudario
del passato” (p. 55); “L’attesa in stazione serve a sentire / che si può essere
ancora più soli” (p. 60), “Ci posiamo per pestare con i piedi le parole, /
farne briciole di bianco, pane da raspare” (p. 76); “Il legno più forte è
quello naufragato / sul bagnasciuga infrangendo l’incanto. // Sarà quello a dare
il fuoco più ostinato” (p. 78).
Ciò che è
fondamentale è spesso legato all’invisibile, al mistero all’inesprimibile e
questo Alfabeto ce ne dona a piene
mani il profumo carico di vita, di umanità, di voglia di sentirsi capaci di pietas nonostante le ferite o anche solo
gli inevitabili inciampi quotidiani dovuti ai nostri errori. C’è un senso nella
vita che i poeti sanno riconoscere con antenne speciali anche quando
razionalmente, emozionalmente pare sfuggente, crudele o assurdo: Chiara ha la
forza “atletica” (essendo lei stessa una persona che ama da sempre correre) per
enuclearlo e lanciarlo verso mete certo ardue e faticose da raggiungere (a
volte perché appunto, se non “invisibili”, certo almeno “annebbiate”), eppure
stupendamente stimolanti, se abbiamo come lei il coraggio di ri-guardarci con
un po’ di quella ironia che fa dei nostri limiti i gradini di una scala su cui
possiamo salire.
Concludiamo questo
breve excursus con citazioni dalla
terza sezioni “Volti”: “si serravano le dita attorno alla matita / a segnare
sul margine grigie le parole / fitte fra loro per non lasciarle sole” (p. 88);
“Ogni anoressica è una gabbia, mi
ripeti, / di un cuore che ha bisogno di
essere in prigione // da quando il cielo gli ha negato di volare” (p. 92);
“Gli adulti per noi erano soltanto / una razza ben strana di bambini //
onniscienti, invincibili, privi di problemi, / felici e al riparo dai mostre e
dagli gnomi” (p. 93); “la vita finora l’ho spesa a costruirmi / senza ragione
un passato migiore” (p. 104); “perché siamo il taglio e lo abitiamo” (p. 107);
“da me si è separato rapidissimo sull’altra / riva il me che ero, e io nel
centro, né uno // né l’altro e, fuori d’ogni direzione, mare alto, // a caccia
di fiato come un vento nel deserto” (p. 110). Assolutamente da assaporare per l’intensità,
la compattezza e la profondità di analisi l’elegia Per S., di cui proponiamo
questo distico: “con la mente un rogo e il corpo a fuoco lento / mentre tutto
mi veniva verso senza incontro” (p. 110).
Un libro
necessario, un compagno per l’anima di ogni viator,
non solo di chi ama e frequenta abitualmente la poesia.
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