martedì 7 luglio 2015

Su Alfabeto dell'invisibile di Chiara De Luca

Samuele Editore, 2015

recensione di AR
 


È ricolmo di suggestive “fotografie” questo Alfabeto dell’invisibile che potremmo definire una radiografia della propria anima fissata sulla lastra della città-madre (alla quale Chiara De Luca è ritornata dopo due decenni vissuti in altri luoghi: “Dopo vent’anni in silenzio ti ritorno”, cosi si apre la prima sezione, appunto “Ritorno”) con i suoi angoli-ricordo, i suoi sapori-nostalgia, le sue voci-emozioni. È un viaggio che appoggia la vista sui particolari e li rende palpitanti, una digressione che segna una tappa importante del proprio andare (il ritorno non è mai regressivo, ma un procedere a partire dal cammino fatto). È un “fare il punto” con la empatica e discreta complicità del lettore, con la fiducia che solo il poeta sa dare alle parole, alla loro bellezza cruda e splendida (“Leggere le pagine del lago / sfogliano le dita dei salici / – le mie le ho bruciate nelle mani”, Parco Bassani I, p. 27, si noti l’ambiguità sintattica verbo/aggettivo di “leggere” che solo nel verso successivo viene sciolta) che sa farsi eco di sensibilità e visioni del mondo per abbracciare gentilmente la nostra fatica di vivere, come notiamo in particolare nella IV  e ultima sezione “Mare” di cui proponiamo per intero la poesia a p. 128 anche come exemplum metrico (versi di lunghezza e scansione ritmica variabile sono non di rado intercalati da endecasillabi più o meno “nascosti”):

Non ha ponti il mare come i fiumi
né alti e impervi valichi di monti
né il guado del ruscello per varcarlo,
ma puoi volargli oltre con lo sguardo
nell’acqua del tempo ritrovarti al largo
tenendoti saldo al parapetto del ricordo

Un’opera radicale, una topografia poetica. La parola “radici” assieme a “guscio” (“Amore è questo guscio duro che la vita / da tempo ha consegnato alla sua assenza”, p. 123) e “nido”  (“questo è il posto giusto per planare”, Nido, p. 25) è ricorrente in questa intensa raccolta della Ferrarese. Consideriamo alcuni versi che la contengono: “L’albero grande ha l’ironia dei santi / che per millenni schernirono i venti / nutrendo erbacce pazienti alle radici” (Parco Massari I, p, 22); “dove flessuose danzano le dita / in ampie volute di radici la vita” (Parco Massari II, p. 33); “ti sento oggi come dall’assenza // nell’inganno di vento delle radici” (Bologna I, p. 62); (dilatare lentamente intorno alle radici / il raggio che origina e nutre lo slancio” (A mia madre, p. 72); “si posano al suolo, non affondano radici, / hanno patria ovunque dentro e nell’altrove” (Gusci, p. 75). Sì, è un Alfabeto umilmente condiviso, sobriamente sviluppato in versi sciolti, ma con una discreta presenza, come dicevamo, dell’endecasillabo, stigma imprescindibile della nostra tradizione che la Nostra ha ampiamente praticato unendola a una profonda conoscenza della poesia contemporanea di varie espressioni linguistiche. Le pagine ci offrono una voce matura, sobria, che conosce i punti di giuntura che fanno vibrare la parola con armonia, senza esagerazioni… in definitiva vi troviamo uno stile riconoscibile, efficace nella scelta delle immagini, negli scarti sintattici, nei giochi calibrati che fanno risaltare le metafore, nel dire così apparentemente fluido e calvinianamente leggero che è cifra di una grande lavorazione a monte, di riflessione su un cammino non privo di prove e lacerazioni… Citiamo alcuni versi tratti dalla seconda sezione “Stazioni”: “Ho gettato quella tenda con l’ultimo trasloco / mesi prima come fosse il sudario del passato” (p. 55); “L’attesa in stazione serve a sentire / che si può essere ancora più soli” (p. 60), “Ci posiamo per pestare con i piedi le parole, / farne briciole di bianco, pane da raspare” (p. 76); “Il legno più forte è quello naufragato / sul bagnasciuga infrangendo l’incanto. // Sarà quello a dare il fuoco più ostinato” (p. 78).
Ciò che è fondamentale è spesso legato all’invisibile, al mistero all’inesprimibile e questo Alfabeto ce ne dona a piene mani il profumo carico di vita, di umanità, di voglia di sentirsi capaci di pietas nonostante le ferite o anche solo gli inevitabili inciampi quotidiani dovuti ai nostri errori. C’è un senso nella vita che i poeti sanno riconoscere con antenne speciali anche quando razionalmente, emozionalmente pare sfuggente, crudele o assurdo: Chiara ha la forza “atletica” (essendo lei stessa una persona che ama da sempre correre) per enuclearlo e lanciarlo verso mete certo ardue e faticose da raggiungere (a volte perché appunto, se non “invisibili”, certo almeno “annebbiate”), eppure stupendamente stimolanti, se abbiamo come lei il coraggio di ri-guardarci con un po’ di quella ironia che fa dei nostri limiti i gradini di una scala su cui possiamo salire. 
Concludiamo questo breve excursus con citazioni dalla terza sezioni “Volti”: “si serravano le dita attorno alla matita / a segnare sul margine grigie le parole / fitte fra loro per non lasciarle sole” (p. 88); “Ogni anoressica è una gabbia, mi ripeti, / di un cuore che ha bisogno di essere in prigione // da quando il cielo gli ha negato di volare” (p. 92); “Gli adulti per noi erano soltanto / una razza ben strana di bambini // onniscienti, invincibili, privi di problemi, / felici e al riparo dai mostre e dagli gnomi” (p. 93); “la vita finora l’ho spesa a costruirmi / senza ragione un passato migiore” (p. 104); “perché siamo il taglio e lo abitiamo” (p. 107); “da me si è separato rapidissimo sull’altra / riva il me che ero, e io nel centro, né uno // né l’altro e, fuori d’ogni direzione, mare alto, // a caccia di fiato come un vento nel deserto” (p. 110). Assolutamente da assaporare per l’intensità, la compattezza e la profondità di analisi l’elegia Per S., di cui proponiamo questo distico: “con la mente un rogo e il corpo a fuoco lento / mentre tutto mi veniva verso senza incontro” (p. 110).

Un libro necessario, un compagno per l’anima di ogni viator, non solo di chi ama e frequenta abitualmente la poesia.

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