La giuria del concorso Pubblica con noi 2015 composta dai poeti Angela Caccia, Anna Ruotolo, Clery Celeste, Fabio Cecchi, Francesco Osti e Lorenzo Mari ha selezionato le seguenti opere:
Classifica sez. Poesia
per la sez. Racconto v. http://narrabilando.blogspot.it
Opere vincitrici
1. Correnti atlantiche di Gabriella Bianchi (Perugia)Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia. Ha pubblicato sei volumi di poesie: L’etrusca prigioniera 1984, Canzoniere 1990, Giardino d’inverno 2005, Cartoline da Itaca 2005, Il paradiso degli esuli 2009, Il cielo di Itaca 2011. È presente in varie antologie nazionali. Ha vinto alcuni primi premi. La sua silloge Il sogno breve è inserita nell’antologia Faraexcelsior 2013. Ha vinto il concorso Faraexcelsior 2014 con Quaderno di frontiera. Hanno parlato della sua poesia: Mario Luzi, Valerio Magrelli, Davide Rondoni, Maurizio Cucchi, Vincenzo D’Alessio.
CORRENTI ATLANTICHE
Ancora la galera di via Canali
da percorrere ogni giorno,
strada meticcia e drogata
da cui le stagioni sono emigrate
(sciarada del divino…)
dove dimentico che esiste la poesia
e che so tradurre il soave Virgilio
ma qui, nell’illecita e sporca
anticamera degli addii,
mi avvicino all’ultima infanzia,
quella che segna il declino della luce
quando le gambe perdono forza
e si piegano.
I tigli che esalavano fragranza
sono ombre in un angolo,
imbavagliate.
A Marina Cvetaeva
Anch’io, Marina, sono prigioniera di un quaderno,
e sempre mi ferisce il giorno
con la sua prosa aspra
irta di aculei
e la sua litania di menzogne.
Anch’io vorrei fuggire nell’Averno
se fossi certa di trovarvi pace.
Vorrei solo dormire
e svegliarmi sapendo che il respiro
ha un senso.
AL VALICO
Il sole falcia i freddi steli del mattino
affiora dal letargo l’Appennino
e i caffè delle Marche aprono i battenti.
Il giorno nuovo stenta a definirsi.
Sull’Appennino è sempre
il giorno prima.
Pensieri e oggetti giacciono
negli angoli
in attesa del sole.
Gli angeli di sentinella alle vette
la sera si siedono in cucina
a scaldarsi le mani.
(…)
«Una raccolta omogenea in cui il poeta/la poetessa racconta
spesso con una lucida e prorompente emotività.» (Francesco Osti)
«L’autrice culla il suo io con antiche nenie, note inzuppate dei
quattro elementi naturali; nel verso ogni peso si fa piuma che attende venti
scorrazzanti oltre ogni confine.» (Angela Caccia)
«Un sentiero di testi queste Correnti
atlantiche che spinge il lettore in un serrato e intrecciato dialogo tra
l’umano e il naturale: “la madre
carnivora era immersa / in pomeriggi di telenovelas” ci svela la ferocia di
quella base carnale (“Niente di carnale nel presente”) che schiaccia la storia dell’evoluzione dell’uomo nei
momenti di intima quotidianità. Questo legame concettuale si fonde con una
versificazione cosciente e ben articolata, i testi sono fluidi come le onde di
queste correnti preannunciate nel titolo, “diretti
a un vasto lago / amniotico e primordiale” è il verso finale della poesia
che precede quella dedicata al figlio “Ha
un piccolo aereo monoposto / perché è figlio unico”. Raccolta di testi
compiuta e circolare con un’acuta attenzione al particolare (“nel mosto che non s’innalza a vino”) che
si apre come i rami di un albero verso l’universale (“Qui la terra è morta / e non riposa in pace”). (Clery Celeste)
2. Tasti muti di Giovanna Iorio (Roma)
Giovanna Iorio vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte: La memoria dellʼacqua (Ghaleb Editore); Mare Nostrum (CFR); La nave dei folli (in Pazziando, Fara Editore); Al cappero piace soffrire (Edizioni Progetto Cultura); Una Venere nel Tevere (CFR); La\crime\ndays (CFR); Due Raccolte smarrite (LaRecherche.itebook); Percezioni dell’invisibile (Aa. Vv., Edizioni L’Arca Felice); Ifigenia siamo noi (Aa. Vv., Scuderi ed.). È in uscita la raccolta Lucciole&Lanterne (Edizioni Progetto Cultura). Redattore di Finzioni Magazine, cura la rubrica di racconti Romani su RomaRoma e il blog personale Amici di letture e di leggerezza. Per contatti: amicidiletture.blogspot.it
TASTI MUTI
Ho sognato che avevo disegnato tasti
Di pianoforte sul tavolo della cucina.
Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
(Tomas Tranströmer)
1.
è caduto un angelo in mezzo al niente
cielo evaporato dove
saltano i pesci sul fondo di un bicchiere
salati gli occhi di chi inerme guarda
le ali senza volo
un uomo vestito di nero
raccoglie la pioggia bianca
offre piume ai passanti
scrive sui muri.
2.
Solo occhi
il bianco ricorda il nero
il lutto della luce
la voce seduta sull'orlo
di un precipizio – laggiù
una radice fruga nel buio –
pulire la coscienza con uno straccio sporco
la giovane cameriera strofina
la macchia sul vetro opaco
ma lei è stanca di allargare olio
annega il viso del cliente
lui frettoloso le chiede: il menù.
La voce è un’eco lontana
anni luce. Risponde: arrivo
signore.
3.
Dorme una volpe
nel buio di fragili ossa
dove il silenzio è ispido
ha il pelo rosso
di un parlare selvatico.
(…)
«Quando il discorso si contrae fino a farsi frammento e, ancor di più, fino ad essere un segreto contenuto in un guscio di noce, la voce potrebbe sparire, farsi esclusivamente gioco, musichetta vaga, arietta che neanche si sente bene: un tocco lieve, su tasti muti. Non è il caso di queste parole, ancorate alla materia, ma anche parole come mattoni squadrati, per costruire nuove case dove tornare ad abitare.» (Lorenzo Mari)
«Le parole, nelle scelte che le precedono, rendono ogni verso denso e ricco di connessioni col mondo circostante e il mondo sommerso, interiore.» (Anna Ruotolo)
«Silloge che si apre con due testi dai versi secchi e disincantati: “è caduto un angelo in mezzo al niente” dove il sacro si schianta nel nulla e tutto diviene possibile “un uomo vestito di nero… / offre piume ai passanti / scrive sui muri”. Visioni apparentemente occasionali come osservare chi lavora “pulire la coscienza con uno straccio sporco / la giovane cameriera strofina / la macchia sul vetro opaco / ma lei è stanca di allargare olio” si trasformano in qualcosa di intimo come la propria coscienza, con un velo amarezza oggettiva, senza passaggi intermedi e subito “la voce è un’eco lontana / anni luce. Risponde: arrivo / signore”. Ma in questa raccolta il cambio di registro è improvviso e l’autore ci propone scenari ancestrali “dove il silenzio è ispido” e il parlare diviene “selvatico”. Gli elementi minerali svolgono azioni umane e “il sale viene a cercare / le ferite”, allo stesso modo il tempo racchiuso in una bottiglia si trasforma in latte. Anche in città si può trovare per caso un frutto “al buio strade e lampioni / gialli improvvisi / ricordano limoni” e la mela appare come uno scrigno con dentro le fondamenta di tutto (“polpa e semi dentro una mela”). I versi sono ben ritmati con una musicalità intensa che non lascia fermo il lettore.» (Clery Celeste)
3. Il glossario delle parole imperfette di Antonella Taravella (Verona)
AntonellaTaravella è nata a Verona nel secondo giorno di marzo del 1977, dove risiedo tutt’ora. Nel 2012 crea WordsSocial Forum, neonato sito di cultura artistica che tocca varie tipologie d’arte, di cui è caporedattore, da cui nel marzo del 2013 battezza il collettivo WSF, che si occuperà di eventuali eventi per convogliare tutte le arti. Molto attiva nella partecipazione ad eventi di poesia a livello nazionale.
Il glossario delle parole imperfette
Per quel tuo cuore che io largamente preferisco
ad ogni altra burrasca. (A. Rosselli)
… Ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte… (C.Campo)
assegno inverni fra le righe di pelle che la mano contiene
mi svesto come una primavera raccolta in gola
dove il sole armeggia con le cerniere dei silenzi
ed ora io – denudata
ti parlo di misure raccontate in promesse
e di piedi che camminano giorni
s_chiusi da giardini in fiamme
mostrando la calma delle percezioni
favole spinte giù dai dirupi
dove l’acqua è come un filo di sangue
che odora di muschio
***
lambisco la lunghezza delle fauci
interamente denudata nel prima e nel dopo
nel desiderio dell'acqua meno torbida
uno scrivere il silenzio nelle fenditure del terreno
scoprendo nel tempo – questo marecalmo
di cui mi cibi (agrumata quanto basta per incresparti
la voce –)
***
come l'esatto contrario delle acque
a vedermi struggente nella boccuccia
sporca di latte
ascoltando un corpo scavato
la cui terra strizza i capezzoli
e la mandibola di denti avariati
sogno quel pozzo
che riflette il mio nome
(…)
«Cupo, osceno, ma, talvolta, anche ridicolo. Questa potrebbe essere forse la descrizione più completa del tavolo anatomico permanente cui, nel corso della raccolta, si va a sottoporre un corpo non già morto, ma certamente aperto a letali contaminazioni. Il glossario delle parole imperfette non può aiutare, né lo può la Poesia. Per farvi fronte, si può forse solo far ricorso alla “povertà” – piuttosto che alla banale, stereotipata e mai sfruttata “ricchezza” – lasciata dall’Altro, insieme alla ferita.» (Lorenzo Mari)
«Una poesia di luci a intermittenza tra i versi studiati e ben controllati.» (Anna Ruotolo)
Menzionati
- Gli angeli schioderanno di Mario Mastrangelo (Salerno)
Mario Mastrangelo (Salerno, 1946, già docente di scienze naturali) scrive prevalentemente nel dialetto della sua città. Ha pubblicato finora sette raccolte di poesie dialettali, dal 1992 al 2011, l’ultima, Nisciuna voce (Nessuna voce), con prefazione di Franco Loi. I suoi versi, scritti in un dialetto musicale, piegato dall'autore alle esigenze d’espressione del suo universo poetico, sono sostenuti da un delicato gioco di rime e si immergono nei diversi spazi dell'interiorità. Commenti alla sua opera poetica sono inseriti in volumi e periodici di critica letteraria. Diverse sue composizioni sono state pubblicate su riviste, tradotte in inglese e raccolte in antologie. Scrive anche poesie in italiano ed affianca all’attività di poeta quella di scrittore di racconti e di studioso di vari aspetti della poesia e narrativa italiana contemporanea.
Gli angeli schioderanno
Ad ogni spegnimento di respiro
gli angeli schioderanno
l’anime dalle croci
dei corpi per costruire nel silenzio
nebulose d'eterno.
Altri di loro aiuteranno il seme
a farsi strada tra le zolle sacre
del grembo, con la forza creatrice
dal divino assorbita,
per piantare sul mondo un'altra vita.
Quasi ti vedo
Quasi ti vedo, mare di racconto,
scalpitante in un grembo di parole,
che offri agli occhi di bimbe sirene
lo zucchero filato del tuo azzurro.
È sonora di giovinezza e sole
la tua giostra di onde che s’avvita
come speranza dentro l’avvenire
e affrescato di sogno è il tuo cristallo,
liquida bocca che la spiaggia invade
per spossarla con baci di tramonto.
E quando la tua anima
E quando la tua anima si veste
del peplo nero dello scoramento,
a piedi scalzi indugia
sopra il taglio affilato dei ricordi
dei giorni non vissuti, dei dilemmi,
che le fanno da dedalo spinato,
da Golgota che trepida in attesa
del legno sanguinante delle croci.
Col dolore ne sugge la certezza
d’essere la più assurda cosa al mondo,
pregna di spaesamento, indifferenza
e disamore al grembo della vita.
Ma dopo aver vagato nel soffrire,
dentro le nasce da semi segreti
l’energia di lasciare la tristezza
ed il buio che intonaca i pensieri,
pronta di nuovo a tentare l’ascesa
della resurrezione, il volo ardito
per trovare un barattolo di cielo,
fresco per ridipingersi di sogno.
(…)
«Una raccolta pregna di piacevole poesia. La composizione è ben modellata, il verso fine e ponderato. Si stagliano molti degli stornelli a centro dell’opera, esili ed eleganti. Resta il lecito rimpianto di non rintracciare ulteriori composizioni di più ampia portata.» (Fabio Cecchi)
«Un verso che ora si fa sguardo lucido, attento e penetrante, ora si condensa in piccoli e preziosi pastelli – un po’ afflitti dalla rima baciata - che colgono comunque luci nuove.» (Angela Caccia)
- Il respiro di Santina Lazzara (Mineo, CT)
Santina Lazzara è Assistente Sociale-Musicoterapista; dal 2013 presente in diverse antologie curate dalla Casa Editrice Pagine e dall’Aletti Editori. La sua prima autoproduzione io vivo Là risale a Dicembre 2012 (recensione di Rita Caramma su La Sicilia e di Barbarbara Pregnolato su Radio Alex). Co-fondatore del gruppo sicilia.punto.poesia, i suoi testi spaziano dall'impegno sociale al sentimentale, prediligendo il Sound Spoken Poetry.
Il respiro
Spina di vento affine.
Occhi chiusi
(nascondiglio)
Mattone dopo mattone
Incantesimi e veleni
Preghiera e imprecazione
A strappi, a morsi
dal basso raccontano
di labbra e dita di corteccia
– Quando il cielo si fa vestito
addosso a dubbi di appartenenza-
(Seguendo la luce in
fondo al tunnel
un altro tunnel e
un altro ancora…)
***
tra lo spazio vitale del tuo fiato
e le margherite in fondo al secchio
un creato e il suo Dio
che non sa di niente
che non sa di noi.
il riccio insegna la libertà di varcare il buio e
di un cielo e del suo malaffare
(manca la terza da invocare)
e ricadere diventa àncora.
Vedi?
c'è una scala che sa di verde
e ti regala un altro cielo
in un'altra stanza.
e
candele dietro le dune
che girano… girano… soffiano… spengono?
incendiano il riscatto dal sangue
e dalla regola.
***
ora
ora che le maschere. ora.
spingi che ci vuole più buio per
il mio nome dimenticato in
quell'altro posto che
non sei tu. ma io. senza.
(…)
«Un testo che inizia alla magia della voce poetica, laddove, in uno stesso respiro, si accumulano e si frangono voci diverse, riuscendo però quasi sempre a mantenere lo stesso passo, lo stesso ritmo. Si forma così una dizione solida, nonostante la presenza di alcuni accessi lirici che non riescono ad illuminare lo spartito del respiro e alcune digressioni di sperimentazione linguistica che non riescono a trovare compiuta giustificazione. Dietro quella dizione, poi, c’è, sorpresa!, non un io, ma un noi, che, in chiusura, formula tragicamente la propria dissoluzione nella fine, nella pagina bianca: “L’Autunno è già qui / e noi non siamo ancora pronti”.» (Lorenzo Mari)
- City Frame Blues di Fernando Della Posta (Pontecorvo, FR)
Fernando Della Posta è nato a Pontecorvo, ma vive e lavoro a Roma. È redattore del blog di poesia e letteratura www.neobar.wordpress.com. È stato inserito in diverse antologie ed ebook. La sua prima opera poetica è stata L’anno, la notte, il viaggio (Progetto Cultura 2011). Il suo blog personale è www.versisfusi.wordpress.com. Insieme alla poesia si occupo anche di fotografia digitale.
City Frame Blues
La città che sgombra, s’ingombra s’inonda.
Mi chiedo le persone sul far della sera
che cosa si dicano in strada
tra il sole che canta l’abisso
e la luna che risponde a dispetto.
Un’ala di fuoco s’andrà celando nel vespro
come un cataclisma nascosto;
avrà pochi cantori invece del sonno
cui rinnovare ogni sera il suo pianto:
pazzi innamorati e bimbi di passo,
da sprazzi di cielo e finestre di specchio,
che s’aprono di smania tra bave di vento
dall’urlo dell’ultimo isolato violento.
Vorrei, sotto i portici inanellati di gelo
dal mio bicchiere di bourbon al banco del mondo
disegnarti gli sguardi a calmare la sera
come il baco nel bozzolo a filare la seta.
***
Dai finestrini oscurati oblò
passo gli occhi alle grondaie
sui perimetri dei muri,
massicci e polverosi,
e sui recinti mai passati
dai pazzi del quartiere;
che passano inosservati
indifferenziati,
o troppo enfatizzati
nei momenti di rivolta
dalle signore schizzinose
o dai padri incravattati.
Così come si torcono
gli usignoli intrappolati
tra le lamiere in overdose,
quei cristi sono i bachi
– bruchi mai farfalla
se non sui libri in mezzo ai quadri –
nell’erba alta delle ville
dove ci scambiavamo i baci.
L’orizzonte era un mosaico
d’indistinto arancio caldo
e subito al di sopra
l’infinito fluido azzurro.
Saranno ancora leggibili
le nostre preghiere
negli zainetti degli angeli
impigliati alle gru?
***
Ci ricostruimmo senza i libri delle favole
lasciati alle cure dei nostri bisogni taglienti.
Gli unici sogni un tetto che reggesse
e un affetto funzionale. Sono restati
dagli anni della fuga costretta del gelo
un sarcasmo violento
e un disamore per l’illusione malferma,
e gli occhi ispessiti
contro il male sempre sospetto
e le fortune degli altri.
A richiedere indietro un pizzico di bellezza
e di familiarità dei luoghi, oltre che dei sorrisi
di lì a poco raccolti a piene mani
nonostante tutto, dalle cicatrici.
(…)
«Raccolta dai connotati visionari: il poeta/la poetessa procede sicuro/a nell’incertezza che pare circondarlo.» (Francesco Osti)
- Paris Necker di Giuseppe Vanni (Cattolica, RN)
Giuseppe Vanni vive a Cattolica; laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Bologna, insegna Storia e Letteratura nella scuola media superiore. Paris Necker segue le raccolte Horror Vacui (2013) e Al Mare (2011).
PROLOGO
Ab origine
Si sfibrano i pensieri
se a ritroso arretri
sul percorso rivolto
all'arcano decorso,
se l'ipotesi formuli
che sveli la causa
del fatuo destino,
l'anomalo rimorso
generato dall'oscuro
disegno divino.
Non a chi incerto
a tentoni va
nel tempo che precede
si offre il dono,
la vertigine
di chi esausto
sull'argine barcolla
ponendo il piede
in salvo. E se davvero
l'origine tu scorgi,
ricorda che il miraggio
s’annuncia spesso
sul cammino
di chi infonde
al cuore stanco
nuovo coraggio.
Così ti consumi
al freddo risveglio
nel pallido mattino,
ignorando ancora
e ancora perché
permetta l'Amore
al prezioso gene
di incorrere
nel beffardo errore.
PARIS NECKER
Il cercopiteco
Entusiasta
ti ho visto fiondarti
nel padiglione dei primati
al Jardin des plants:
ricordo l’occhio umido
di un Orango
riflettersi triste
sul vetro oltre il quale
confuso tra altri
meditavo in bilico
tra creazionismo
ed evoluzionismo,
tra disegni divini
e bieco meccanicismo.
Un cercopiteco saltellava
tra le fronde: lo guardavi
rapito dagli agili
virtuosismi circensi
con cui pareva
lanciarsi nel vuoto.
Accanto al totem
che recitava
mesure toi à moi
ti accostavi curioso:
eri alto come il Bonobo
e ti stupiva la dimensione
del gorilla che si stagliava
oltre i tuoi capelli
arruffati. Quel grafico
troppo simile a un frutto
della Dea ragione,
a un’idea teleologica
di evoluzione, mi spingeva
a evocare per reazione
l’anomalìa che s’incarna
nel decorso genetico
che sempre inaugura
una nuova via.
Solo due per cento
tra cercopiteco
e uomo cibernetico,
tra la coda prensile
e lo smartphone
come utensile.
Dio si astiene?
Ecco la questione:
se col cromosoma
imperfetto
e il suo contrario
la Natura gioca
per diletto,
o se Dio interviene,
se il soffio s’incarna
nella Storia,
o se altro non siamo
che una sequenza
da recitare a memoria.
(…)
«Una poesia cesellata e distribuita con mestiere in questi “filoni” letterari dallo sfondo plumbeo. Il motivo conduttore estrapola e rimesta da teosofia, teodicea, nonché vicende biografiche delle quali non riesce a trapelare molto. A convincere, più delle risposte sgorgate, sono il lessico steso con ordine e efficacia e le riflessioni per come condotte.» (Fabio Cecchi)
- Tra faglie e frammenti di Elina Miticocchio (Foggia)
Elina Miticocchio nata a Foggia l’11 maggio 1967, risiede a Foggia. Cura il blog Imma(r)gine e collabora al sito web CarteSensibili. Nel maggio 2014 ha pubblicato per la casa editrice Terra d’Ulivi la raccolta poetica dal titolo Per filo e per segno.
Una pesante cappa avvolge questo istante di luce.
Sto per navigare
mi perderò in un altro tempo e luogo
una imprecisa forma
un labirinto
là si compirà il miracolo gioioso
seme
alberi
viventi
nascita che prende voce
si ritrova nei frammenti corteccia
erba divisa all’ombra degli steli
mani a stendere il pane quotidiano
braccia a difendere ogni parto
ogni creatura
memoria di terra nel deserto
risorto fuoco di vulcano
placenta sepolta al canto suo vagito.
Come i bambini non sentono il peso del corpo
Tra rami spezzati
bagnati di petalo nero il mio cuore torna
alla porta, verde, al filo d’oro
tutto il cielo nell’erba si stende
di tenero azzurro profuma
sfila la luce
nel polso bagnato che ha perso le favole
indugia una stella
è mattino.
Un nido di cielo
quante sfumature chiamate a raccolta
hanno queste mani
d’autunno esplose
e vedo che altro sta bruciando
e sale tra le foglie
un respiro, avvinto, di terra
nel sogno di luce
sbigottita per tanto chiarore
un Cantico è segno.
(…)
«Visioni ampie che la parola non riesce a contenere ed ingabbiare nella loro interezza, percezioni appena accennate che lasciano quel buon gusto di sospeso nel lettore che prosegue intimamente il cammino.» (Angela Caccia)
- Canzonette di Daniele Barbieri (Bologna)
Oltre a scrivere poesie, Daniele Barbieri, di formazione semiologo, insegna presso l'ISIA di Urbino, l'Accademia di Belle Arti di Bologna e lo IUAV di S.Marino. Ha pubblicato diversi volumi di carattere critico, in alcuni dei quali si parla anche di poesia: Nel corso del testo. Una poesia della tensione e del ritmo (Bompiani, 2004), Il linguaggio della poesia (Bompiani, 2011). Sue illuminate opinioni, anche sulla poesia, si possono leggere sul suo blog all'indirizzo www.guardareleggere.net . Sue poesie, oltre che nel volume La nostra vita, e altro (Campanotto 2004), si possono leggere sull'altro suo blog, all'indirizzo ancoraunaltrome.wordpress.com.
Prime canzonette
La canzonetta è una forma poetica per musica, di origine popolare, argomento spesso amoroso. È parente del madrigale, ma i toni sono più leggeri e la metrica svelta. Anche poeticamente, sin dal nome, è una canzone minore.Prima canzonetta
(a Federico García Lorca)
la bimba dai bei capelli
si guarda attorno e ride
dalle vie del mezzogiorno
nessuno intorno risponde
la bimba dagli occhi scuri
osserva le strade vuote
quando arriverà la sera
verrà qualcuno a cercarla
la bimba lo sa che bimba
a lungo non resterà
verso le prime ombre
qualcuno la cercherà
la cercherà l’uomo nero
uscito da vecchie storie
la cercherà un uomo biondo
uscito da storie nuove
la bimba dai bei capelli
è capace di aspettare
nero o biondo arriverà
l’uomo che la saprà amare
Seconda canzonetta
sono soltanto parole
che rifiutano di scorrere
non pulsione non sostanza
che freme sotto le dita
è solamente una voce
che non trova il suo percorso
non sentimento non vita
che si risponde nei corpi
ma le parole hanno carne
e la voce le sue mani
più non si toccano in nulla
i nostri amori lontani
Terza canzonetta
è quello che voglio dire
è quello che voglio fare
è così che voglio incidere
è così che voglio amare
come un silenzio che grida
voglio entrare nel tuo cuore
come un grido nel rumore
voglio restarci invisibile
voglio restare acquattato
nelle pieghe del tuo amore
come una mistica tenia
che si nutre di dolore
(…)
«Una vena lirica che sa come riscuotere attenzione. L’opera, organizzata in sezioni, non risulta però spaccata in parti in quanto continuità di stile resta a sottendere i testi dall’avvio sino la chiusura. Il tono è di tendenza impulsivo e fremente, così da trattenere avvinti e spingere oltre a ruota. Nel periodo si echeggiano e amplificano volutamente i nuclei tematici, gioco che talvolta sembra sfuggire di mano all’autore. A mio dire l’intuizione prevale sulla metafora. Cenno speciale per le liriche ‘Se si salutano senza’ e ‘Se una passione splendesse’.» (Fabio Cecchi)
- La tristezza del tempo di Vincenzo D’Alessio (Montoro Inferiore, AV)
Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Vive a Montoro Inferiore (AV). Laureato in materie letterarie all’Università di Salerno, ha ideato il Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”, ha fondato il Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e la casa editrice omonima. Ha pubblicato diversi saggi di archeologia e storia locale e le seguenti raccolte poetiche: La valigia del meridionale (1975), Un caso del Sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando sarai lontana (1991), L’altra faccia della luna (1994), Costa d’Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo (1998), D’amore e d’altri mali (1999), Elementi (2003), Versi di lotta e di passione (2006). L’ultima raccolta, Figli (2009), è dedicata al figlio Antonio, prematuramente scomparso. La silloge Padri della terra è inserita nell’antologia Pubblica con noi 2007 (Fara) che raccoglie le opere dei vincitori dell’omonimo concorso, mentre La solitudine dell’iceberg è stata inserita, sempre per i tipi di Fara, in Creare mondi, antologia dei vincitori del concorso Pubblica con noi 2011. Nel 2012 esce La valigia del meridionale. Molte sue recensioni sono presenti in farapoesia e narribilando e alcune sono state raccolte in Profili critici. È fra i vincitori del concorso Pubblica con Noi 2014.
La tristezza del tempo
§ - 1
Siamo stanchi di questa terra
che partorisce vipere al suono di campane
protegge chi ignora l’uomo
segue feroce solo il pane.
C’è vita nelle stelle e nel pensiero
più avanti dei morsi del veleno.
I filosofi si dissetano nelle ore di Elea
dove Poseidone non muore.
§-2
La contadina vestita di nero
ha dato il suo ultimo respiro
l’avessi vista com’era vera
davanti alla mano assassina
Il lavoro l’ha resa sorella di
donne che al Sud senza nome
affondano il viso nella polvere,
mangiano il pane del perdono
Le lenzuola pulite di bucato
usate per l’ultima volta
verranno bruciate nel prato
il letto della prima notte.
§-3
La polvere in montagna
accompagna i giorni
il fischio del falco fa
compagnia, a dorso di mulo
cammino per vie antiche
Mio nonno era un mulattiere
Mio padre ha aperto i sentieri.
§-4
La donna esile in cammino
sotto il sole, borsa nella mano
l’altra che ripara il viso , veste
il lutto da anni. Ha cresciuto figli.
Ora quiete rende giustizia
al tempo: è così grande
nel letto mentre l’ombra si perde.
(…)
«Poesie che sembrano restituirci quadretti dipinti finemente, nei quali la dolcezza e il dolore del vivere quotidiano si alternano convivendo.» (Francesco Osti)
- Dodici di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: “Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”
I
A lungo ricorderai quest’epoca disonesta
nei giorni di una follia che contagia.
E non basterà scrivere che il Novecento
si è chiuso sotto i colpi dei picconi,
tra rottami e spezzoni
di muri e recinzioni.
Per questo vorresti condividere il pane
con gli ultimi, i superstiti, i sopravvissuti
testimoni del passato,
alla festa per l’avvento
di una pace a lungo attesa.
II
Certe sere, quando si spengono
i rumori della vita e pari s’allontana
il ripercuotere dei motori,
pensi alla follia degli uomini
che ancora s’illudono di far poesia.
Allora trangugi una fetta di pane
e trovi sazietà in questo pasto primitivo.
Un sorso d’acqua confonde il palato
e tacita lo stomaco dai morsi della fame.
III
(…) e spezzato il pane
lo portò alle labbra.
Ci sarà modo per dirlo con altre parole,
forse una preghiera, finché non sapremo
di essere morti e la fame sarà meno vera.
I nomi li abbiamo nel cuore
in un morso che serra
la bocca con dolore,
eppure li abbiamo nel cuore,
mentre la strada si fa ardua e severa.
(…)
«La struttura numerica dona alle poesie un ordine reale e convincente, un modo originale di centrare le cose.» (Anna Ruotolo)
- Pelle di donna di Iole Troccoli (Firenze)
Iole Troccoli è nata a Firenze, il 23 giugno 1961. Suoi racconti e poesie sono presenti in varie antologie, edite da Liberodiscrivere, Giulio Perrone Editore, Pagine e Onirica Edizioni. Con Aletti Editore ha pubblicato, nel giugno 2010, la raccolta poetica L’amore, in stesure d’acqua solitaria (apparizioni).
Penelope del condominio
All'ancoraggio della terra
lei restava muta
nel sottoscala un umido di vecchie scope
risolveva il quesito dell'inquilino inutile
regnante all'attico assolato.
Lei non lo conosceva, né conosceva me
vicina senza clamori, avvolta tra coperte
come spire.
Sapeva solo che aspettavo sempre
da sempre complicavo la mia vita
sull'uscio senza uno zerbino.
Non ci incontravamo quasi mai
lei era gracile – le gambe in croce
come un recitativo di preghiera
stordivano a guardarle
ma il naso era all'insù
protetto da una zazzera nervosa.
Lei lo sapeva che io aspettavo sempre
un giorno mi sembrò che imitasse il verso
della pioggia per calibrare lo sguardo
dentro il mio.
Io stavo chiusa in una casa zoppa
reclusa da gradini che di notte
riflettevano le stelle.
Lei mi osservava raramente
come se passasse un treno di periferia.
Aveva gesti che tremavano, residui
di insondabili carezze.
Avrei voluto che mi suonasse il campanello
[lei lo sapeva, non so come, che aspettavo sempre]
avrei voluto vederla con una torta rossa
tra le mani aperte
con un messaggio di torpore placido
di separazione offerta ancora allo stupore.
Ma io l'avrei schivata – e lo sapeva
avrei tenuto fermo il battito in levare
dei pianeti
e quei ricami azzurri sulle foglie
che mi parlavano in sussurri offesi
quando la notte precipitava senza un ornamento.
Lei lo sapeva
mi sorrideva appena nell'ingresso desolato
faceva finta di accendere una luce
fuggiva verso il suo tramonto personale
dentro l'appartamento polveroso
che non avevo visto mai.
Lei lo sapeva che avrei aspettato sempre
e, in fondo, era il segreto di noi due
che ci legava, appese
era il segreto duro anche quando
la vidi lunga sulle scale
un'isola ingombrante lasciata scivolare
sola incontro all'umido di quelle scope zitte
senza una luce accesa
pura, sopra quel marmo sgretolato rosso
di ferite.
Da allora, lascio le porte aperte
un filo d'aria a regolare quel tremore
suo, che è diventato mio, adesso.
Ma non aspetto più nessuno
io non aspetto più
eccetto il suo sorriso assente
che mi percuote ovunque, nel ricordo.
25 novembre 2014
(…)
«Una voce femminile che si apre chiara nelle dinamiche di un condominio, dove una vicina sa ogni cosa, anche la più intima “Lei lo sapeva che aspettavo sempre”; ricorre come un ritornello a intervalli regolari. L’essere donna è il centro di questa raccolta, ci si mostra per quello che si è “Sono storta, seduta all’angolo / mi escludo la visuale, tento un travaso/ ma il fiore si reclina”. E ancora “Io spunto dal nulla/ io sono/ quattro case appoggiate all’inverno”, ci si denuda in questi versi, ci si rende scarni. Ma l’umano si svolge anche nel tempo dell’attesa e della speranza “Ma è dolce stare alla finestra/ immaginando questo inizio di autunno/ come un presagio/ o un lungomare bellissimo” e così fino ai sogni che ci sostengono nel peso della quotidianità perché “Quando mi frantumo – io / non mi vede nessuno/ tutto avviene nel silenzio” e dell’amore resta l’amaro di chi è stato deluso: “Di amore non saprei mai più/ gli strappi/ o la premura minima schiacciata/ al finestrino”. I testi sono tutti musicali e spesso il verso portante ritorna come una ninna nanna da cantilenare; sempre però presente l’attenzione al senso del testo che dove è più aspro il ritmo cambia e si fa incalzante.» (Clery Celeste)
- La tristezza del tempo di Vincenzo D’Alessio (Montoro Inferiore, AV)
Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Vive a Montoro Inferiore (AV). Laureato in materie letterarie all’Università di Salerno, ha ideato il Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”, ha fondato il Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e la casa editrice omonima. Ha pubblicato diversi saggi di archeologia e storia locale e le seguenti raccolte poetiche: La valigia del meridionale (1975), Un caso del Sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando sarai lontana (1991), L’altra faccia della luna (1994), Costa d’Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo (1998), D’amore e d’altri mali (1999), Elementi (2003), Versi di lotta e di passione (2006). L’ultima raccolta, Figli (2009), è dedicata al figlio Antonio, prematuramente scomparso. La silloge Padri della terra è inserita nell’antologia Pubblica con noi 2007 (Fara) che raccoglie le opere dei vincitori dell’omonimo concorso, mentre La solitudine dell’iceberg è stata inserita, sempre per i tipi di Fara, in Creare mondi, antologia dei vincitori del concorso Pubblica con noi 2011. Nel 2012 esce La valigia del meridionale. Molte sue recensioni sono presenti in farapoesia e narribilando e alcune sono state raccolte in Profili critici. È fra i vincitori del concorso Pubblica con Noi 2014.
La tristezza del tempo
§ - 1
Siamo stanchi di questa terra
che partorisce vipere al suono di campane
protegge chi ignora l’uomo
segue feroce solo il pane.
C’è vita nelle stelle e nel pensiero
più avanti dei morsi del veleno.
I filosofi si dissetano nelle ore di Elea
dove Poseidone non muore.
§-2
La contadina vestita di nero
ha dato il suo ultimo respiro
l’avessi vista com’era vera
davanti alla mano assassina
Il lavoro l’ha resa sorella di
donne che al Sud senza nome
affondano il viso nella polvere,
mangiano il pane del perdono
Le lenzuola pulite di bucato
usate per l’ultima volta
verranno bruciate nel prato
il letto della prima notte.
§-3
La polvere in montagna
accompagna i giorni
il fischio del falco fa
compagnia, a dorso di mulo
cammino per vie antiche
Mio nonno era un mulattiere
Mio padre ha aperto i sentieri.
§-4
La donna esile in cammino
sotto il sole, borsa nella mano
l’altra che ripara il viso , veste
il lutto da anni. Ha cresciuto figli.
Ora quiete rende giustizia
al tempo: è così grande
nel letto mentre l’ombra si perde.
(…)
«Poesie che sembrano restituirci quadretti dipinti finemente, nei quali la dolcezza e il dolore del vivere quotidiano si alternano convivendo.» (Francesco Osti)
- Dodici di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: “Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”
Tempo di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere la luce del sole.
Per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
E la gente, l’umile gente
abbia ancora chi l’ascolta
e trovino udienza le preghiere.
(Turoldo)
I
A lungo ricorderai quest’epoca disonesta
nei giorni di una follia che contagia.
E non basterà scrivere che il Novecento
si è chiuso sotto i colpi dei picconi,
tra rottami e spezzoni
di muri e recinzioni.
Per questo vorresti condividere il pane
con gli ultimi, i superstiti, i sopravvissuti
testimoni del passato,
alla festa per l’avvento
di una pace a lungo attesa.
II
Certe sere, quando si spengono
i rumori della vita e pari s’allontana
il ripercuotere dei motori,
pensi alla follia degli uomini
che ancora s’illudono di far poesia.
Allora trangugi una fetta di pane
e trovi sazietà in questo pasto primitivo.
Un sorso d’acqua confonde il palato
e tacita lo stomaco dai morsi della fame.
III
(…) e spezzato il pane
lo portò alle labbra.
Ci sarà modo per dirlo con altre parole,
forse una preghiera, finché non sapremo
di essere morti e la fame sarà meno vera.
I nomi li abbiamo nel cuore
in un morso che serra
la bocca con dolore,
eppure li abbiamo nel cuore,
mentre la strada si fa ardua e severa.
(…)
«La struttura numerica dona alle poesie un ordine reale e convincente, un modo originale di centrare le cose.» (Anna Ruotolo)
- Pelle di donna di Iole Troccoli (Firenze)
Iole Troccoli è nata a Firenze, il 23 giugno 1961. Suoi racconti e poesie sono presenti in varie antologie, edite da Liberodiscrivere, Giulio Perrone Editore, Pagine e Onirica Edizioni. Con Aletti Editore ha pubblicato, nel giugno 2010, la raccolta poetica L’amore, in stesure d’acqua solitaria (apparizioni).
Penelope del condominio
All'ancoraggio della terra
lei restava muta
nel sottoscala un umido di vecchie scope
risolveva il quesito dell'inquilino inutile
regnante all'attico assolato.
Lei non lo conosceva, né conosceva me
vicina senza clamori, avvolta tra coperte
come spire.
Sapeva solo che aspettavo sempre
da sempre complicavo la mia vita
sull'uscio senza uno zerbino.
Non ci incontravamo quasi mai
lei era gracile – le gambe in croce
come un recitativo di preghiera
stordivano a guardarle
ma il naso era all'insù
protetto da una zazzera nervosa.
Lei lo sapeva che io aspettavo sempre
un giorno mi sembrò che imitasse il verso
della pioggia per calibrare lo sguardo
dentro il mio.
Io stavo chiusa in una casa zoppa
reclusa da gradini che di notte
riflettevano le stelle.
Lei mi osservava raramente
come se passasse un treno di periferia.
Aveva gesti che tremavano, residui
di insondabili carezze.
Avrei voluto che mi suonasse il campanello
[lei lo sapeva, non so come, che aspettavo sempre]
avrei voluto vederla con una torta rossa
tra le mani aperte
con un messaggio di torpore placido
di separazione offerta ancora allo stupore.
Ma io l'avrei schivata – e lo sapeva
avrei tenuto fermo il battito in levare
dei pianeti
e quei ricami azzurri sulle foglie
che mi parlavano in sussurri offesi
quando la notte precipitava senza un ornamento.
Lei lo sapeva
mi sorrideva appena nell'ingresso desolato
faceva finta di accendere una luce
fuggiva verso il suo tramonto personale
dentro l'appartamento polveroso
che non avevo visto mai.
Lei lo sapeva che avrei aspettato sempre
e, in fondo, era il segreto di noi due
che ci legava, appese
era il segreto duro anche quando
la vidi lunga sulle scale
un'isola ingombrante lasciata scivolare
sola incontro all'umido di quelle scope zitte
senza una luce accesa
pura, sopra quel marmo sgretolato rosso
di ferite.
Da allora, lascio le porte aperte
un filo d'aria a regolare quel tremore
suo, che è diventato mio, adesso.
Ma non aspetto più nessuno
io non aspetto più
eccetto il suo sorriso assente
che mi percuote ovunque, nel ricordo.
25 novembre 2014
(…)
«Una voce femminile che si apre chiara nelle dinamiche di un condominio, dove una vicina sa ogni cosa, anche la più intima “Lei lo sapeva che aspettavo sempre”; ricorre come un ritornello a intervalli regolari. L’essere donna è il centro di questa raccolta, ci si mostra per quello che si è “Sono storta, seduta all’angolo / mi escludo la visuale, tento un travaso/ ma il fiore si reclina”. E ancora “Io spunto dal nulla/ io sono/ quattro case appoggiate all’inverno”, ci si denuda in questi versi, ci si rende scarni. Ma l’umano si svolge anche nel tempo dell’attesa e della speranza “Ma è dolce stare alla finestra/ immaginando questo inizio di autunno/ come un presagio/ o un lungomare bellissimo” e così fino ai sogni che ci sostengono nel peso della quotidianità perché “Quando mi frantumo – io / non mi vede nessuno/ tutto avviene nel silenzio” e dell’amore resta l’amaro di chi è stato deluso: “Di amore non saprei mai più/ gli strappi/ o la premura minima schiacciata/ al finestrino”. I testi sono tutti musicali e spesso il verso portante ritorna come una ninna nanna da cantilenare; sempre però presente l’attenzione al senso del testo che dove è più aspro il ritmo cambia e si fa incalzante.» (Clery Celeste)
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