recensione di Renzo Montagnoli pubblicata in Arteinsieme.net
Quando
la Poesia è Arte
Quaderno di frontiera è l’opera vincitrice assoluta del Concorso Faraexcelsior 2014 organizzato dalla casa editrice Fara di
Rimini che si occupa prevalentemente della pubblicazione di opere di poesia.
Premetto che spesso sono scettico sulla validità dei testi premiati in questi
concorsi, perché troppe volte mi sono trovato in deciso contrasto con le
valutazione della giuria, ma in questo caso, pur non conoscendo i lavori degli
altri partecipanti, sono rimasto piacevolmente colpito dalla qualità
complessiva di questa silloge. In verità le qualità sono più d’una e, prima fra
tutte, fatto inconsueto, la straordinaria comprensibilità, frutto di una
capacità non comune di tradurre in versi stati emozionali o riflessioni non
certo facili. Secondo me questa è la strada che dovrebbe percorrere oggi la
poesia, per poter essere apprezzata dai più e infine anche per perpetuarne
l’autentica e originaria natura, che nel tempo e soprattutto negli ultimi anni
si è svilita in composizioni prosastiche, sovente incomprensibili e che
comunque rendono difficoltoso, se non addirittura impossibile, l’approccio del
lettore. Che c’è di meglio di versi piani e scorrevoli in una struttura
equilibrata e armonica per invogliare chi legge a fare proprio il messaggio del
testo? Direi che in questo Gabriella Bianchi ci è riuscita (da Alla madre scomparsa: (Al di là degli elementi consueti / in quale
treno sei / in quale traghetto o transatlantico / in quale aereo diretto dove?
/…). L’eterna ricerca di un “dopo” è ben espressa, in un senso di
solitudine che è proprio di chi ha perso un proprio caro, e nel caso specifico
la mamma, che fra tutte e tutti è la più cara.
Le tematiche affrontate sono molteplici e spesso
possono celarsi sotto versi che magari introducono a una stagione, come in Cerimoniale
d’autunno (…/ L’aria profuma di
mele rosse, / ma sui panni stesi ad asciugare / il vento lascia lacrime / di
genti lontane / sopraffatte dalla sete. / Di loro non resta traccia.)
Poesia questa di impegno civile, sofferta e anche lancinante nella chiusa, dove
è possibile intendere quel “Di loro non
resta traccia” come un qualcosa di talmente lontano di cui la gente non si
accorge. Vediamo il dolore che ci tocca da vicino, ma già un metro più in là
non ce ne accorgiamo e quindi è ovvio immaginare che i derelitti del pianeta si
consumino nel più grave dei nostri peccati: l’indifferenza.
È impossibile parlare di tutte queste belle poesie,
ma di una, che rientra nel mio sentire in modo spiccato, ritengo sia giusto
dire un po’ più di due parole; è quella
che è mi piaciuta di più, non voglio dire che è la più bella, perché, mi
ripeto, sono tutte belle, ma il ricordo di un tempo più a misura d’uomo,
contrapposto all’attuale frenesia, è troppo importante per licenziarla magari
solo con una frasettina. Ed è per questo che intendo assaporarla,
suggere come un nettare ogni verso.
Gabriella Bianchi scrive:
Nella mia infanzia c’era solo il treno
e qualche
bicicletta arrugginita.
In due soli versi il ritratto di un’epoca, di
un’Italia martoriata dalla guerra che faticosamente cercava di tornare a
vivere.
Percorrevo sentieri tra gli arbusti
colmi di sputi
d’insetti misteriosi.
Per i bambini, per quelli poveri, ed erano quasi tutti
poveri, i giocattoli erano spesso un miraggio, ma in cambio c’era una natura
incontaminata da esplorare.
Le auto in città o sulla via maestra
erano poche.
Intorno
era tutto selvatico,
poco o niente si era mosso nelle case
e nei
meandri del pensiero umano.
C’era come un tempo fermo, ripetitivo, in un’atmosfera
rallentata.
La levatrice interrompeva la quiete
quando spuntava
con la sua Lambretta
anche di notte.
Il resto
era un’isola perduta nel
folto
dai cui spiragli si vedeva la città,
ma la città non vedeva noi
e
questo ci salvava.
Sì, la nuova era cominciava dalla città, in cui la
vita era diversa e non guardava mai alla campagna, considerata quasi un
accessorio di poco conto; era ancora lontana l’epoca della folle
cementificazione, dei centri urbani che con i loro tentacoli soffocheranno la
campagna.
Restavamo innocenti a giocare
sulla strada
tra il
fiato delle cantine
e un forte odore di trinciato.
L’aria pungeva lieve
di clorofilla.
L’innocenza non era solo dei bambini, ma di una
civiltà, prossima a essere soppiantata, che non conosceva il mito del denaro
per il denaro, che si accontentava di quel poco che c’era e poteva inspirare
l’aria profumata dei prati, non quei gas venefici che oggi ammorbano e
ammalano. Una volta si andava in campagna perché l’aria era più salubre; oggi
non è più possibile, perché concimi e anticrittogamici hanno intossicato prima
i polmoni e poi il cervello. Era un’epoca dell’innocenza, una sorta di Arcadia
di cui ormai pochi possono serbare il ricordo.
Leggete questa silloge, perché così leggerete la
Poesia, quella con la P maiuscola,
quella che scende fino al cuore e rasserena, quella che, quando è così, è Arte.
Gabriella
Bianchi è nata e vive a
Perugia.
Ha
pubblicato sei volumi di poesie: L’etrusca prigioniera 1984, Canzoniere 1990, Giardino
d’inverno 2005, Cartoline da Itaca 2005, Il paradiso degli esuli 2009, Il cielo di Itaca 2011. È
presente in varie antologie nazionali. Ha vinto alcuni primi premi. La sua
silloge Il sogno breve è inserita nell’antologia Faraexcelsior 2013. Hanno parlato della sua poesia: Mario Luzi, Valerio Magrelli, Davide Rondoni, Maurizio Cucchi, Vincenzo D’Alessio (“L’intensità dell’esperienza vissuta trapela
in ogni verso, segue una musicalità antica come il canto di Orfeo per Euridice.”).
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