lunedì 18 agosto 2014
Su Ovunque un seme d’affetto di Salvatore Della Capa
recensione di Vincenzo D'Alessio
Sfogliando le pagine dell’Antologia Siamo tutti un po’ matti, pubblicata da Fara Editore in occasione del concorso nazionale Insanamente 2014, curata da Alessandro Ramberti, ho avvertito la forza dei versi raggiungermi nella breve raccolta di Salvatore Della Capa: “Ovunque un seme d’affetto”, sei poesie brevi, cariche di sentimento, alla ricerca dell’essenza nella poetica, a mio parere molto vicina ai versi di Pierluigi Cappello che seguono: “La parte soleggiata di noi stessi / non somiglia a questo prato d’agosto / che vedi / somiglia piuttosto a una pietra / che il tempo abbia sepolta / nel fondo profondo di noi” (La misura dell’erba, 1998).
Il capoverso della seconda composizione che dà il titolo alla breve raccolta coinvolge il lettore nella ricerca “della parola che schianta” il dolore eterno che nutre le viscere di questa società ipermoderna adagiata sulla ricchezza di pochi e sulla morte di molti. “Il contatto, il corpo cercato” sono le necessità semplici che la diffidenza, l’indifferenza, le paure, hanno sottratto alla Civiltà Contadina che le aveva seminate per millenni. Il poeta ci trascina con l’avverbio “Ovunque” alla stregua del seminatore rappresentato nel Vangelo di Matteo: “(…) E mentre seminava, una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono” (13,1-23) e gli altri semi seguirono una sorte analoga fino a quell’ultimo seme caduto “sulla terra buona” per portare frutto.
Il Nostro è come tanti di noi alla ricerca del “seme d’affetto” nei figli, nel prossimo, nelle tragedie vissute dalle popolazioni sospinte a lasciare le terre natali violentate dalle guerre, dal terrorismo religioso, dallo sfruttamento delle risorse imposte con la forza della corruzione e del potere. “Il seme d’affetto” da recuperare ovunque senza aspettare la distruzione portata dai propri simili, nel corpo “della parola” che spezzi finalmente quest’insostenibile prova di terrore che attanaglia i giorni di questo Nuovo Secolo.
I primi versi del Nostro si collegano ai versi che abbiamo ripreso dalle poesie di Cappello: “… già questi pensieri / duri di sasso / queste parole / di lama e forbice” l’avverbio esprime il compiersi tra il pensare poetico e la resa nella parola poetica che non rivela il reale “questo prato d’agosto” (cito Cappello) quanto il dramma interiore indescrivibile in Della Capa: “duri di sasso” sottoposti “alla lama” dell’evento linguistico e alla “forbice” della limatura. Il vero compiersi della poesia in ogni tempo. Tema ripreso nella composizione finale della breve raccolta. Qui la ricerca è simile al travaglio della veglia, le mani per comporre affrontano l’ostacolo dei sensi fino a toccarne il fondo. La volontà del poeta è la ricerca di quel “perché questo dolore / che ci portiamo addosso” (A E.D.) tanto che la poesia diviene la madre colpita dalla mano che si dovrebbe fermare là dove la consapevolezza dell’essere finito rasenta il vuoto perfetto de l’ indefinito: “(…) Conficco più forte / le unghie nella carne / fino a toccarne la colpa. / Non ho fermato la mano / quando ho colpito mia madre.”
La poetica contemporanea di Salvatore Della Capa è stata raccolta in modo impareggiabile dalla poeta Caterina Camporesi, nella qualità di Giurata in questo concorso annuale ideato dalla Casa Editrice Fara, che riporto testualmente: “Forza, impotenza, colpa, pentimento, espiazione, verità di affetto sparsi ovunque si snodano e si annodano lungo la traiettoria di versi limpidi, essenziali, incisivi e icastici. Il lettore non ha scampo: non può sottrarsi all’evento della sorpresa e neppure ad un profondo coinvolgimento” (pag. 21).
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