recensione di Vincenzo D'Alessio
Le poesie incluse in questa raccolta di Gianfranco Miro Gori che reca il titolo in dialetto romagnolo E’ cino, la gran bòta, la s-ciuptèda mi hanno fatto un gran bene al cuore per i ricordi; alla mente per il rinnovarsi del dialetto; alle orecchie per la musicalità che le circonda. Il cuore ha trasalito contento per il racconto, cercato da molti anni, di quell’evento eccezionale che per noi ha significato il cinema (e’ cino).
Il cinema per noi nati negli anni Cinquanta del secolo breve ha avuto il significato del sogno, proprio come per il protagonista del film Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore del 1988: il luogo deputato per uscire dalla realtà, abbeverarci di avventura, unirci alle passioni e alle sofferenze, ridere serenamente. Eppure c’era la fame e la guerra lì a pochi passi nei resti delle case bombardate! Miro Gori traduce nei versi quello che sto dicendo e lo fa come un poeta:
E’ cino l è e’ su pòst.
Mò piò di tòt l è
la pelècula ch’la strésa,
la léusa ch’la taia,
e’ tilòun ch’l arléus. (pag. 28)
“Il cinema è il suo luogo. / Ma più di tutto è / la pellicola che striscia, / la luce che taglia, / il telone che riluce.”
Com’è difficile accedere alla sintassi poetica di questa raccolta se non si è entrati almeno una volta in un antico locale cinematografico. Così com’è difficile ripetere a voce alta i fonemi di questi versi se non si conosce almeno in parte il dialetto della propria terra. Tutti i dialetti vengono dalla terra. Il magnifico racconto realizzato da Federico Fellini nel film Amarcòrd del 1973 ha nella meraviglia dello svolgersi del vissuto la presenza dialogica del dialetto romagnolo, caro alla sua infanzia. L’autore di questa raccolta ha voluto coniugare insieme, esaltandoli, il cinema e il dialetto: due miti che vanno scomparendo lentamente:
Duò ch’i è andè
quéi ch’i panseva,
i santóiva,
i zcuròiva in dialèt? (pag. 16)
“Dove sono andati / coloro che pensavano, / sentivano, / parlavano in dialetto?”
In tutta la raccolta l’anafora ripete “Il cinema è morto”, “che la vita è bella ma fa male”. La figura emergente dal passato è la nonna: metafora del cordone ombelicale che lega la dolce immagine del passato confrontata con la fine del sogno:
(…) Mè, ch’ò vést
la mi nòna e la mi ma,
a n e’ so piò ’s’el ch’a vòi…
Inquèl. (pag. 39)
“Io, che ho visto / mia nonna e mia mamma, / non so più cosa voglio… / Tutto.”
La colpa di questi cambiamenti viene data dal Nostro alla televisione o all’invasione globale di internet, quasi fossero alieni giunti a distruggere i ricordi!
Non ho risposte in questo senso. Ho arginato la caduta del nostro dialetto dalle aule scolastiche dei luoghi dove sono vissuto, sostenuto da sensibili maestri (Mario Lodi, Vincenzo Petrosino, Paolino Marotta), per circa quarant’anni ricorrendo a corsi di conoscenza del territorio, dove la civiltà contadina riempiva il silenzio generato dall’industrializzazione forzata. In qualche modo Miro Gori in questa raccolta tenta la medesima operazione.
Lo fa nella seconda parte della raccolta la gran bòta simulando il Big Bang che ha dato origine all’Universo che oggi conosciamo. Bellissimo l’accostamento al nulla che precede il tutto, fatto semplicemente, attraverso l’acqua, il fuoco, lo stare in piedi, il bastone e le storie. Gli elementi che hanno fatto scaturire la vita sul nostro pianeta e la memoria che nella parola e nei segni ha dato origine alla Storia scritta dell’Umanità. La figura femminile che dà origine alla prima “camminata” ritta in piedi richiama la scoperta dell’ominide denominata Lucy in Tanzania e si allaccia alla figura mitica della propria nonna.
La terza e ultima parte della raccolta la s-ciuptèda, la fucilata, è un omaggio al grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli, alla morte del padre di questi, Ruggero, avvenuta il 10 agosto 1867: la tragicità dell’evento è descritta dal Pascoli nella poesia X agosto. Ma più vicina alla voce poetica di Miro Gori potrebbe, secondo me, risultare la poesia Romagna dello stesso Pascoli nei versi che seguono: “(…) Da’ borghi sparsi le campane in tanto / si rincorron coi lor gridi argentini: / chiamano al rezzo, alla quiete, al santo / desco fiorito d’occhi di bambini.”
Sì! Perché tutta la forza della lingua dialettale romagnola che presiede a questa raccolta mira alla conservazione della memoria di coloro che hanno parlato, respirato, lavorato, migrato, vissuto e poi scomparsi in questi luoghi. La sala cinematografica è uno dei luoghi deputati ma l’escatologia è nei versi che seguono:
I artèsta,
par la mi nòna e la mi ma,
i arlusòiva
davénti e éulta e’ tilòun
cmè stèli de zil.
I film
pre mi anvòud
i s-ciandrà dabòn de zil
cmè stèli cadénti. (pag. 48)
“Gli artisti, / per mia nonna e mia mamma, / splendevano / davanti e oltre il telone / come stelle del cielo. / I film / per mio nipote / scenderanno davvero dal cielo / come stelle cadenti. ” Entrambe le similitudini riportano le stelle e il cielo: testimoni immutati dell’eterno sogno di Gianfranco Miro Gori e dell’Umanità.
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