lunedì 10 marzo 2014
Su Meteo Tempi di Alberto Mori
di Andrea Rompianesi
Sappiamo quanto influisca il clima sulla nostra sparuta ansia del quotidiano. La reiterata, ipocondriaca sorte che attribuisce alle variazioni meteorologiche i destini delle nostre attese. Oggi è possibile accompagnarci ad un qualcosa capace di consolarci... è un libro accattivante di Alberto Mori dal titolo Meteo Tempi (Fara, 2014). E già l’epigrafe dai sonetti di Shakespeare, citando “l’estate prima d’aver stillato la tua essenza”, lascia intendere un segno, quello delle stagioni (una sezione del testo di cui diremo in seguito), non solo incisivamente evidenziabile ma perfino topico. Il sensitivo cogliere il fradicio, l’umidore, il rasciugo emette l’alito del versificare tangibile e mosso dall’intenzione di una ipersensibilità che premia ogni monade (ogni anima) nell’intesa e nella concezione dinamica. Sinestesie a lato indirette e velate, compiutamente oscurate dalla proposta che intercede attraverso strumenti non umani ma riciclati e ridistribuiti nell’approccio nomade. Le gocce sono evidenze sceniche, liminari conduzioni alla trasformazione dei passaggi, sbalzi e mutazioni reattive al nostro coattivo scendere e salire dai gradini della danza forzata che apre sipari notturni e fluidi. Il tempo è voltura, fiato, tuono, brezza, luna; alfabeti d’esilio o verbo dei silenzi, per citare Francesco Marotta. L’annuncio è invece grafico, algoritmo, simbolo, suono bianco (buio bianco...per riferirsi ad un titolo di Massimo Scrignòli). E ancora pressione, morsura, brivido, dilatazione, mappa. Punti di un riferimento fermato nell’assalto dei particolari che disegnano gli schemi risolti, consegnati al progetto di una programmabilità calcolata. Dove il tratto compiuto è quasi piano cartesiano, equivoco e contrario alla univocità del verso. Poi, come dicevamo, ecco che il ritmo giunge al suo alto grado in uno dei momenti più felici di tutta la produzione di Mori. Nella sezione “stagioni” le poesie si fanno più lunghe e complesse, si compattano maggiormente i versi tra loro, riducendosi gli spazi d’interlinea; la solidità corposa arriva anche a misurarsi con lunghezze inusuali di strofe... la visualizzazione concepisce fasi descrittive che “sfrecciano con piega inerziale davanti ai rampicanti”; c’è vocazione narrativa nell’apertura alla successione e alla percorribilità... “sempre caldo a Nairobi”, nella nota civile, nelle configurazioni verso “slanci spiralici”. Poi, certo, le “zone” sono urbane, le “visioni” pittoriche... ma lo zefiro sfugge, rapidissimo, perché tutto è già stato detto; la manutenzione è ipotesi dove il senso opprimente dell’attualità lascia inespresse le domande croniche. Essere e Tempo? O piuttosto e più esattamente Essere è Tempo?
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