(apparso
a stampa in Atlante dei movimenti culturali dell'Emilia-Romagna
dall'Ottocento al contemporaneo, a cura di P. Pieri e L. Weber, vol. II, Clueb,
Bologna 2010, pp. 101-108)
E si
pone, allora, la questione dell'eredità che la Scuola Classica Romagnola poté
lasciare agli scrittori emiliano-romagnoli tra fine Ottocento e primo
Novecento, fra il retaggio carducciano (ben vivo nell'ambiente della rivista La
Romagna, fondata e diretta da Alfredo Grilli, Gaetano Gasperoni e Luigi
Orsini, e poi idealmente confluita nella Società di Studi Romagnoli, a
tutt'oggi assidua e collettiva custode della memoria storica e della sua
precaria, umbratile e minacciata continuità[2]) e gli scrittori legati ad
influssi decadenti, simbolisti e vociani, da Oriani a Beltramelli (presso i
quali, peraltro, l'eredità classica si risolverà non tanto in un'autonoma,
silenziosa, quasi claustrale religione delle lettere, quanto, piuttosto, in
un'esaltazione, vulnerabile a strumentalizzazioni ideologiche e
propagandistiche, sebbene
profondamente ed autenticamente sentita, dell'identità italica e latina
con le sue trionfali reminiscenze e radici – e, nel Beltramelli di Anna
Perenna, in un'arcaicità omerica, in una lontananza mitica o primordiale,
rivisitata non senza il compiacimento di una decadente verginità ricomposta),
da Pascoli a Serra, per non dare che qualche sparso, ma emblematico, nome.
Quanto a
Serra, non è vuota erudizione riesumare due articoli quasi del tutto obliati:
la recensione ad Elegie e sonetti di Giuseppe Partisani (un carducciano
traduttore di Virgilio, oggi dimenticato), apparsa sul «Popolano» di Cesena il
26 aprile 1913 (e nella quale è ricordato, fra Severino Ferrari e Pascoli, il
«doloroso e non dimenticabile» Giacinto Ricci Signorini, lirico elegiaco e
insieme vivido, denso di richiami storici e paesaggistici che suggestionarono,
nascostamente, lo stesso Serra in più luoghi, a cominciare da una famosa pagina
del saggio pascoliano del 1909, la quale risente della vasta e luminosa visione
della «dolce terra di Romagna», argentea, cerulea, brunita, campagna fusa al
mare e al cielo, che si accende d'un tratto nella conferenza del Signorini Il
passaggio di Lucrezia Borgia per Cesena[3]), e quella, edita sul
«Cittadino» il 7 agosto del 1910, a Studi e ricerche di Gaetano
Gasperoni, nella quale è ancora rievocata, con viva ed evidente
immedesimazione, l'atmosfera della scuola classica, «quel piccolo mondo,
spirante sana aura di dottrina e di buone lettere, in cui si rispecchia pacata
e nitida l'immagine di un vasto movimento della cultura non pure romagnola, ma
italiana»: dove sarà da notare il già vigile senso storico, che non si arresta
alla retorica e al mito della "piccola patria", ma vede nel
microcosmo locale l'eco e il riflesso di un'identità e un movimento più vasti,
quelli del grande classicismo italiano ed europeo (del resto, Dionigi Strocchi,
con la sua un tempo celebrata Ode alla danzatrice, si inscriveva appieno
nella linea che, dal Foscolo a D'Annunzio, da Mallarmé a Valéry, fa del
moto armonioso e fine a se stesso della danza l'emblema visivo e
spazio-temporale dell'autonomia e della libertà stesse proprie del sogno e del
gesto poetici).
Osservava,
non senza finezza, Luigi Orsini, in un panorama della Romagna letteraria
apparso sull'Illustrazione italiana l'11 settembre del 1938, che sarebbe
stato utile indagare quanto, della scuola classica romagnola, fosse rimasto,
negli scrittori romagnoli successivi, in termini di «solidità costruttiva,
chiarezza e concisione di forma»; lo stesso Orsini che, più di trent'anni
prima, sulla «Romagna», nel 1904, coglieva, nella poesia di Paolo Costa, «aurei
sprazzi di luce». Né il giudizio era infondato, se ricondotto, ad esempio, all'Inno
a Giove, che presenta a sua
volta chiari punti di contatto con il Monti dantesco e neoplatonico della Bellezza
dell'universo: «Da le folte tenebre, ov'era chiuso, / Ei trasse il lampo,
che fa bello il Sole»: versi, questi del Costa, che nella versione latina,
profondamente simpatetica, di Luigi Graziani diverranno «Iupiter e caeca exemit
caligine lucem / Quanta super caelo vestit nitidissima solem», con dantesco
scintillio, nell'originale come nella versione, di sibilanti e rotanti. E gli
stessi «sprazzi di luce», gli stessi brividi fonici e cromatici attraversano
anche le traduzioni di Graziani in latino delle Odi barbare di Carducci:
versioni che segnano, in certo qual modo, per i testi di partenza, una sorta di
ritorno alle origini, di risalita alle sorgenti e agli archetipi, «aux sources
du poème» direbbe Valéry, cioè a quella tradizione latina, soprattutto virgiliana
ed oraziana, a cui aveva primamente attinto lo stesso Carducci: così, ad
esempio, «Mandava l'organo pe' cupi spazii / sospiri e strepiti: da l'arche
candide / parve che l'anime dei consanguinei / sotterra rispondessero» diviene
«Per vacuum raucos agitabant organa bombos, / et gemitus et flebile murmur /
quae consanguineos nitidis tellure repostos / credideris iterasse sub antris»
(dove la musica cupa e sommessa, la fosca melodia di dentali, sibilanti e
vocali chiuse è mirabilmente rispecchiata nella tramatura fonica del latino, e
l'atmosfera sepolcrale dell'originale è trasfusa in un ritmo e in
un'intonazione densi di fonosimbolismi virgiliani - «raucos bombos», «gemitus
et murmur», «iterasse sub antris» - che non sarebbero dispiaciuti a Pascoli e a
Serra, e che riducono al minimo l'arbitrarietà del segno, avvicinandolo alla
sostanza sensoriale, e insieme all'intima essenza eidetica, della realtà
evocata e trasfigurata, tra vita e tenebra, fra morte e memoria); per converso,
un intenso vibrio musicale, e insieme luminoso, attraversa il dettato del
poemetto originale del Graziani Bicyclula (premiato, come tante volte i
versi di Pascoli, al Certamen Hoeuffianum), delineando un'atmosfera e un
timbro non lontani dal Pascoli della Mia sera: «Carmine populeis resonat
philomela sub umbris, / Ranaque quae querulum recrepat vel rauca coaxat»[4].
Ed è, forse, proprio questa l'essenza del messaggio e
dell'eredità che la scuola classica, in tutto il suo sviluppo ottocentesco e il
suo retaggio protonovecentesco, trasmise ai successivi esponenti dell'identità
letteraria emiliano-romagnola: una sorta di rivisitazione – non priva, in un
Graziani, in un Albini, in un Orsini, di brividi e venature simbolisti e
decadenti, e dunque non lontana dalla sensibilità pascoliana e serriana – del
settecentesco e primo-ottocentesco "classicismo sensistico": un
indirizzo della cultura, della sensibilità, del gusto che trovava, nel
consapevole e dottissimo richiamo ad una classicità metatemporale ed assoluta,
l'ideale filtro, lo schermo limpido e severo grazie a cui e attraverso cui
trasmutare le percezioni sensoriali in idee, in concetti, in entità mentali –
la aisthesis in eidos, la realtà percepita o rievocata in
sostanza espressiva, immagine, suono, parola.
Come in Leopardi – e come poi, per certi aspetti, in
Francesco Acri, come pure nel "positivismo trascendentale" di Serra e
di Pascoli, peraltro notoriamente indispettito, quest'ultimo, da certa vera o
presunta indeterminatezza leopardiana -, sensismo e platonismo convergono nella
dialettica, nella diairesis, nell'arte intellettuale e musicale, nella
mentale, materiale ed immateriale, danza, delle idee e dei concetti, con le
loro associazioni, le loro scomposizioni e ricomposizioni, le loro prossime e
remote, sottili o potenti, analogie, cementate dalla gentle force degli empiristi e successivamente, nel
mutato contesto culturale cui appartenevano un Serra e un Pascoli, dal démon
de l'analogie e dell'immense analogie universelle dei simbolisti.
Neppure il Leopardi dell'Infinito, forse, sarebbe
potuto pervenire all'intuizione dell'oltre, dell'indeterminato, di un qualche
sovrasensibile assoluto a partire dall'evidenza, dall'immediatezza, dalla
barriera fenomenica dell'esperienza sensibile – la siepe, che Alessandro
Parronchi paragonava al "muro" di Berkeley e dei sensisti[5] –, se non fosse passato
attraverso l'esperienza – forse influenzata dall'analoga prova dello Strocchi,
o almeno in sintonia con essa – della traduzione degli Idilli di Mosco,
la cui siepe – fra Teocrito e Virgilio – emana la voce brulicante e vivida,
multiforme e indistinta, di una naturalità materica, eppure pronta ad
umanizzarsi nella sua eco verbale, nella sua risonanza sillabica ed
immaginifica: traducendo, ad esempio, il frammento tramandato da Stobeo dell'idillio
quinto di Mosco, il giovane Leopardi è attento a rendere (lasciando già
intravedere alcuni dei "segnali dell'infinito" su cui indagherà Luigi Blasucci) la trama
fonica, intessuta di lievi e alati suoni sibilanti e rotanti (hònemos atréma,
glukys hypnos, pagàs ... ha térpei psophéoisa) dell'originale:
«Quando il ceruleo mar soavemente / Increspa il vento ... / Oh quanto
dolcemente / d'un platano chiomato io dormo all'ombra! / Quanto m'è grato il
mormorar del rivo». La traduzione – come nella Scuola Classica Romagnola - si fa atto critico-creativo, che ricompone i dati della percezione testuale e li riesprime – per via quasi simbolica, emblematica, eidetica – in quella «creazione di secondo grado» che è la riscrittura intesa come aemulatio. Mimesis, imitazione – anzi più propriamente, per l'appunto, aemulatio, riverbero purificato o prosecuzione sublimante – è la parola poetica rispetto alla voce inarticolata, ma pregnante, della natura così come, di riflesso, la parola della traduzione artistica, creazione di secondo grado, rispetto alla poesia, attraverso la quale quella poesia riflessa che è la traduzione creatrice può, di ritorno, relazionarsi con la natura e con il mondo.
Problemi, questi, essenziali, di una modernità perenne ed assoluta, che venivano fissati lucidamente da Vincenzo Monti in Sulla difficoltà di ben tradurre, in cui si teorizzava una «musica delle idee» intesa come variopinta e melodiosa tessitura verbale che si propaga di testo in testo, di pagina in pagina, di voce in voce, dall'"idea principale" alle secondarie - così come il pittore procede e compone, unitariamente, di figura in figura, di ombra in ombra[6].
Una visione non dissimile sta alla base della pratica della traduzione nella Scuola Classica Romagnola – come, a tacer d'altro, al cuore dell'esperienza del Panzini traduttore, compartecipe e corposo, di Esiodo, o di quella dell'Orsini interprete elegante e composto di Omero e di Virgilio, e prima ancora del Pascoli antologista-rapsòdo.
Proprio riguardo a Pascoli, è forse bene riportare ciò che Carducci scriveva di Antonio Nardozzi traduttore georgico, anteponendolo anche allo Strocchi interprete di Callimaco: c'era, nel Nardozzi, «quella flessuosità melodica e sfumata onde più fantastica e affettuosa spira la imagine»[7].
Sembra di leggere Serra critico di Pascoli (un poeta che, per l'appunto, come già il Carducci barbaro, alterò dall'interno, senza mai approdare al verso libero, e anzi espressamente rigettandolo, le strutture metriche tradizionali, insufflandovi una flessuosità melodiosa).
E si può ipotizzare che tanto uno Strocchi quanto un
Nardozzi abbiano potuto mediare gli echi che l'amato Virgilio destò in Pascoli.
Basti pensare, in Strocchi, all'«odor di giacinti
rubicondi» che rende (con tipica aggettivazione di gusto sensista) un verso
della terza Bucolica («suave rubens hyacinthus»: notazione, invero,
nell'originale, dolcemente cromatica, non olfattiva), con chiara anticipazione
del pascoliano, sinestetico «odore di fragole rosse», mentre, in Buc,
VI, 31 sgg., «magnum per inane» diviene «per l'immenso vuoto», «durare solum»
«E la faccia indurò del vasto piano», con prefigurazione, forse, del Pascoli
cosmico e astrale, del suo «Vuoto / gelido oscuro tacito perenne», posto però,
da Pascoli, in un orizzonte
apocalittico, non nell'alba cosmogonica; e certo Pascoli notturno, astrale,
cosmico sembra prefigurarsi anche nel Nardozzi traduttore virgiliano, la cui
reminiscenza può interagire con quella leopardiana: «Avia resonant virgulta» (Georg.
II 328) diviene, con fonosimbolismo pre-pascoliano, «suonan le antiche
solitarie selve», pochi versi dopo «immissa sidera caelo» è amplificato in «le
stelle ne l'azzurro immenso / tremolarono», e «tanta quies» in una leopardiana
«profondissima quiete» (si pensi al «cilestrino tremolio di Vega» in Rossini,
o alla «quiete più alta» del Sogno della Vergine), mentre certi
fonosimbolismi più aspri e spigolosi («il rovaio che a notte urta le porte», il
tuono che «rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, / e tacque, e poi rimareggiò
rinfranto»...) sono prefigurati da rese come quella, amplificata, di Georg.
IV 78-80 («concurritur, aethere in alto / fit sonitus, magnum mixtae
glomerantur in orbem»): «Su per l'aer levasi / Un rombo , s'urtan, mesconsi,
raggruppansi / In ampio globo».
Proprio approfondendo gli aspetti sensoriali, l'intensità
percettiva della realtà e della parola, il dire poetico (dal sensismo analogico
ed evocativo della scuola classica fino al Positivismo trascendentale di Serra)
pone la barriera, il muro, la siepe della materia, del sensibile, del fenomeno
solo per oltrepassarli ed aprirsi verso l'oltre, verso l'ignoto e il mistero.
Il soggetto poetico è, in certo modo, un soggetto fichtiano, che pone a se
stesso dei limiti solo per poterli trascendere, o dissolvere.
«Analizzare altro non è che osservare in un ordine
successivo le qualità di un soggetto a fine di dare ad esse nel nostro animo
l'ordine simultaneo, nel quale esistono», scriveva Paolo Costa nel breve
trattato Della sintesi e dell'analisi. Sul piano della resa stilistica,
della concreta costruzione della pagina, analisi e sintesi convergevano ed
interagivano a formare – come Costa scriverà nel trattato Della elocuzione -
«quell'interior senso sì necessario a comporre lodevolmente». Questo «interior senso» diverrà, in un Serra,
la «coscienza letteraria», la forma mentis, e insieme la scelta etica ed
esistenziale (ma forse, in pari tempo, qualcosa di simile al subliminal Self,
alla soggettività globale, unificata e trascendentale postulata dal tardo
positivismo), che consente di immedesimarsi profondamente, ab imis,
nel seno di una tradizione sepolta, annullando – fosse pure solo illusoriamente
– il tempo e la storia.
Anche Serra svaria dall'analisi alla sintesi, dal rilievo
formale o dall'evocazione suggestiva e mimetica fondati sul verso singolo alla
visione, all'immagine complessiva, intuitivamente e simpateticamente formata,
dell'autore.
Eppure, ancora sulle orme di Leopardi (che precede le
riflessioni del Costa, sebbene entrambi sfiorino uno stesso milieu culturale
bolognese), la sintesi ultima finisce per essere, in Serra, annullamento,
inabissamento, naufragio, riduzione al silenzio (penso al «flusso eracliteo che
mi spaura» nella Partenza di un gruppo di soldati per la Libia, o alla
rievocazione, nell'Esame di coscienza, dei popoli antichi oramai
tramontati, di cui «più non si ragiona»).
Visione tragica della storia, quella a cui approda Serra
così come, prima di lui, il Leopardi del Cantico del Gallo Silvestre o
il Pascoli astrale e cosmico del Ciocco, della Vertigine, di Andrée:
ma visione tragica proprio in quanto dialettica, solcata e lacerata dal
conflitto, segnata dalla dismisura fra l'interna, dolorosa, quasi fisica
contingenza dell'evento (un "interior senso" stavolta non
estetizzato, ma acremente vissuto)
e una trascendenza appena intravista, subito dissolta nel Vuoto, nel
Nulla, nel Gorgo di un mallarmeano
désastre obscur.
La sensibilità e la sensorialità – risvolti
ed esiti dell'originario classicismo sensistico – si traducono, infine, in una
distruzione e in una cancellazione del senso, sia come modalità di
essere-nel-mondo che come significato, essenza, messaggio.
E si può citare, allora, un altro esponente della Scuola
Classica Romagnola, Eduardo Fabbri, tragediografo diviso, con tensione sofoclea
e manzoniana, fra libertà individuale e violenza della storia, fra agraphon
dogma, legge naturale ed eterna e mysterium iniquitatis, destino
imperscrutabile ed inesorabile. «Un che m'amava d'infinito affetto, / e ch'è
sotterra, il fatal colpo spinse». «Il mio pensero / ... S'a te sorvivo per
destin mio fero / teco in tomba verrà» (Francesca da Rimino, A. IV, sc.
IX). «Che la poca mia polve al santo suolo / si mesca, onde sortì» (I Trenta
Tiranni, A. III, sc. VI).
Come in Petrarca (Laura ridotta a «poca terra»), in
Pascoli (l'erba che cresce sopra le fosse), e, ancora, nel Serra dell'Esame
(la cara terra «buona per i nostri corpi»), il Fato è quasi materializzato,
fisicizzato, il richiamo agli archetipi stratificati della tradizione segna un
ritorno – fosse pure nella morte e nel disfacimento – al vasto grembo, tiepido
ed antico, dell'antiqua Mater, della Madre Terra.
Nel cesenate Cesare Montalti, poeta latino le cui nenie
pontaniane, con i loro endecasillabi faleci, prefigurano certe movenze
ipnotiche e sommessamente vibranti del novenario pascoliano («Levi nunc
Zephyrus susurrat aura, / laetos nunc avium vagus per agros / chorus....»), e
al quale Serra dedicherà, alla Malatestiana, un paziente lavoro archivistico,
la piccola patria provinciale è Mater benevola ed accogliente, garante e protettrice della riposta
pace degli studi («Tellus hospita Musis», «Tellus magnanimis fertilis
ingeniis», si legge nella melodiosa e melanconica elegia In funere Laurentii
fratris).
Come in Ricci Signorini (al quale la Magna Tellus
apparirà, nel tormentoso pensiero - infine realizzato nella derealizzazione di
sé - del suicidio, insieme tomba e culla, cuna e monumentum:
«L'anima tace ... quasi smarrita in questa fredda terra»; «Era la terra una
tomba; sui tumuli bianchi scendea /
Una fulgida pioggia al mover del vento» - e si ricordino anche la «terra
fredda» e la «terra negra» di Pianto antico di Carducci, anch'esso
ispirato da Mosco, mentre nei Paesaggi dell'alta Romagna dello stesso
Signorini, che prefigurano il Panzini della Lanterna di Diogene, sono
evocate, in anticipo sul Serra dell'Esame[8], le generazioni che «cadono a
mucchi come grano maturo», mentre «eterna rimane questa terra verde e feconda»)
e come in Serra, così anche in Montalti
lo sguardo lucreziano e ovidiano che si alza dal suolo incontra, prima
del cielo, la sommità della piccola patria, i colli e le mura di Cesena, i
«ditia moenia» che «sese dant avidis obvia luminibus» e l'«apricum iugum» che
cinge il borgo natale[9]. Si è già avuto modo di accennare al legame, eterogeneo, delicato ma vitle, che unisce - fra classicismo romagnolo e sue eredità moderne - matrice sensista, pensiero analogico e sovrastorico ideale di humanitas.
Ebbene, questa ermeneutica analogica è presente anche in figure minori (come Alfredo Grilli e Sfinge, pseudonimo di Eugenia Codronchi Argeli), legate, al pari di Serra, alla cerchia della Romagna. Sfinge, enfaticamente e un poco ingenuamente, inscrive Dante entro l'alone e la suggestione assoluti di una "umanità" senza tempo, al di là dei secoli, eppure non idealizzata e rarefatta, ma passionale ed accesa. «Questo poeta è, prima di tutto, più che tutti, un uomo, uno di noi», con la sua dannunziana «facoltà di vibrare ... come strumento multicorde», con le sue baudelairiane «sinfonie d'infinito e d'abisso»[10]. Grilli, dal canto suo, sulle orme di Ruskin e ancora di D'Annunzio, paragona Dante ad un costruttore di cattedrali, ad un modellatore di pure forme nel marmo pisano. «Per via ... di segrete analogie», come il D'Annunzio dell'Allegoria dell'Autunno, egli vuole guidare i suoi lettori a perscrutare le architetture del poema, cogliendo il pascoliano «murmure infinito» che ne promana[11].
Uno
stesso analogismo pre-serriano pervadeva la pagina del giovane Panzini
interprete di Carducci come di Boiardo, critico artista e umanista: ogni voce
ha «con sé un seguito di ombre, di luci e di fantasmi»[12] – «come un'eco nel cuore
d'infinita tacita melodia», dirà Serra. Le parole del poeta sono in certo modo
tornate nel grembo della natura,
della grande madre, da cui emersero mediate dal filtro della coscienza critica:
«si sono confuse nell'immensa natura e navigano il gran mare dell'essere»[13] (espressione, quest'ultima,
dantesca e pascoliana: e proprio Pascoli
concordava con Hugo sul fatto che «au fonds de la nature, c'est l'art»).
Difficile, si direbbe, trovare un poeta più di Campana
lontano dal composto, distaccato e un po' stucchevole umanesimo panziniano.
Eppure, anche in lui (che, scolaro ingegnoso ed irrequieto, si era formato nel
Ginnasio faentino, uno dei simboli della tradizione classica romagnola,
fortemente voluto e difeso dal Monti e dallo Strocchi, «antico palazzo rosso
affocato nel meriggio sordo») il luogo natale si impregna di reminiscenze
culturali, la terra è gravida di memorie, di idee-madri, archetipiche eppure
storicizzate, di immagini sovrapposte ed intersecate con dedaleo intreccio
analogico. Il nitore neoclassico del marmo faentino si sposa ad una sensualità
e ad una levità alata, liberty (che è poi quella del faentino Baccarini,
il quale rileggeva motivi dionisiaci con l'occhio esile e sinuoso dell'art
nouveau, e che nondimeno sa
conservare, figurativamente, qualcosa della corposità, della pingue e
consistente carnalità, dell'intensa e pastosa tattilità si potrebbe dire
con Berenson, tutte romagnole, proprie di un Cagnacci o, nel Novecento, di un
Margotti): «sorride ... una bianca purità virginea conservata nei delicati
incavi del marmo. Grandi figure della tradizione classica chiudono la loro
forza tra le ciglia» (Faenza). «E il semplice cuore provato dagli anni /
A le melodie della terra / Ascolta quieto» (Immagini del viaggio e della
montagna). Anche in Panzini, pur nel divario della sensibilità e dei contesti, la Terra è la virgiliana antiqua Mater, da cui sorgono, o a cui devono, esaurito il loro ciclo, tornare, ogni esistenza, ogni creatura, ogni voce. Il «fiore della poesia», dice Panzini lettore di Boiardo, «vive la vita delle rose», «in sé vive e in sé arride»: Pascoli (la poesia che, «fatta d'animo puro e di parole», «vive la vita limpida del sole») e Dante (Dio conscientia sui, suprema autocoscienza, che «da sé intelletto / ed intendente sé ama ed arride»). Natura e artificio si fondono nell'incondizionatezza e nell'autonomia del segno artistico, del cristallino gesto intellettuale. Eppure i fiori della poesia – destinati a dissolversi presto in «evanescenza» e «profumo» - «nascono dal duro tronco, e il tronco si affonda con radici nella terra verminosa»[14].
Sulla bellezza incombe l'ombra della morte. Per legge tragica, ciò che viene alla luce dovrà scontare la propria nascita tornando nella tenebra fonda dell'origine. La tradizione, le radici, il canone, se da un lato alimentano la creazione, le danno materia, linfa, basamenti su cui crescere, dall'altro, inevitabilmente, la fagocitano, la metabolizzano, la assimilano a sé, facendola diventare cosa morta. «Tout va sous terre et rentre dans le jeu», dice il classicista Valéry.
Nell'affettuoso ricordo di Serra si chiude La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso. E con l'immagine di Serra – già avvolta, come in un Ade virgiliano, dalla nera cortina della morte – si apre il Viaggio di un povero letterato: Serra che, con la sua «eco di risposta interiore» (l'«interior senso», empirico, percettibile, eppure soggettivo, di Paolo Costa), percepiva «alcun nobile ritmo» nelle pagine panziniane, mestamente liriche, sul Camposanto di Pisa, permeate da «ineffabili tonalità violacee», da un ferale «color di alabastro» ricamato sul verde vivo dei prati[15].
I discepoli di Carducci sapevano che «sol ne la morte è il vero». Il classico ha l'eternità, la perennità marmorea della morte, oltre, e forse più, che l'essenza sublime di una vitalità purificata. Eppure, proprio in ciò sta, chi ben guardi, la sua paradossale, consapevole e tragica, o melanconica, modernità.
Matteo Veronesi
[1] Riesumato da Augusto Campana in occasione del Convegno di studi sul
poeta e patriota Dionigi Strocchi, Lega, Faenza 1962, pp. 58 sgg. Sulla
Scuola Classica Romagnola si possono vedere G. MAZZONI, L'Ottocento (1913),
Vallardi, Milano 1964; A. PETRUCCIANI, Introduzione ai poeti
della Scuola Classica Romagnola, Sciascia, Caltanissetta 1962 (utile
soprattutto sul piano informativo);
La Scuola Classica Romagnola, Mucchi, Modena 1984; P. PALMIERI,
Occasioni romagnole, ivi 1994; ID., Giacomo Leopardi e la Scuola
Classica Romagnola, in Leopardi e Bologna, Olschki, Firenze 1999;
ID., Leopardi, la lingua degli affetti e altri studi, Il Ponte Vecchio,
Cesena 2001.
[2] Cfr. G. GASPERONI, Nel solco delle grandi memorie, Garzanti, Milano 1955; M. BIONDI, Alfredo Grilli nella cultura romagnola fra Otto e Novecento, Lega,
Faenza 1981; ID., La tradizione della
città: cultura e storia a Cesena e in Romagna nell'Otto e Novecento,
Società di Studi Romagnoli, Cesena 1995; ID., Studi Romagnoli: cinquant'anni di letteratura, ivi 2002.
[3] L'illuminante raffronto è suggerito da Renzo Cremante in L'arte dolorosa di Giacinto Ricci Signorini,
a cura di M. Biondi, Il Ponte Vecchio, Cesena 1995, pp. 34-35.
[4] La produzione di Luigi Graziani – che, vissuto a cavallo fra Otto e
Novecento, della Scuola Classica fu uno degli ultimi eredi, accanto a Giuseppe
Albini – è raccolta in Lyra classica, Zanichelli,
Bologna 1931.
[5] A. PARRONCHI,
«II muro di Berkeley e la siepe di Leopardi o la nascita della veduta
indiretta», «Paragone», 114 (giugno 1959).
[6]
V. MONTI, Opere, a cura di M.
Valgimigli e C. Muscetta, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, pp. 1028-1029.
[7] G. CARDUCCI, Edizione Nazionale,
vol. XXVIII, Zanichelli, Bologna 1938, p. 6.
[8] Come notato da Marino Biondi in
L'arte dolorosa, cit., p. 63.
[9] Cfr. G. MARONI,
Cesare Montalti, Il Ponte Vecchio, Cesena 2000, pp. 32-33.
[10]
SFINGE, Homo sum, «La Romagna», XIV, 1923, n. 7, pp. 317 sgg.
[11] A. GRILLI, Elogi e discorsi, Tipograifa Aldina, Bologna 1956, pp. 186 sgg.
[12]
A. PANZINI – R. SERRA, Carducci, a
cura di M. Pazzaglia, Fara, Santarcangelo di Romagna 1994, p. 28.
[13]
Ibidem, p. 176.
Su Panzini, cfr. Alfredo Panzini nella cultura letteraria fra Ottocento
e Novecento, a cura di E. Grassi, Maggioli, Rimini 1985; Fra Bellaria,
San Mauro e Savignano, a cura di M. Pazzaglia, La Nuova Italia, Scandicci
1995.
[14] A.
PANZINI, La bella storia di Orlando
innamorato e poi furioso, prefazione di M. Ricci, Fara, Santarcangelo 1994, pp. 127
sgg.
[15] ID., Opere scelte, a cura di G. Bellonci,
Mondadori, Milano 1970, pp. 316 sgg.
Nessun commento:
Posta un commento