Pier Luigi Bacchini, Staminali eterne, Mondadori 2024, a cura di Camillo Bacchini, Introduzione di Alberto Bertoni
recensione di Giancarlo Baroni
Appena ho iniziato a leggere i testi compresi in Staminali eterne di Pier Luigi Bacchini ho avvertito un sentimento di apertura, come se lo spazio mentale si dilatasse e si espandesse, come se il respiro del poeta e del lettore funzionassero all’unisono. Ci troviamo ancora una volta di fronte a versi, adopero le parole del critico Alberto Bertoni nell’Introduzione, di un «altissimo livello qualitativo».
Anche il risvolto di copertina ribadisce il valore dell’opera: «Pier Luigi Bacchini ha proseguito con incessante energia intellettuale la sua ricerca anche negli ultimi anni di vita. Il frutto ce lo rivela oggi l’attenta, puntuale devozione del figlio Camillo, che ha curato Staminali eterne, raccolta quanto mai variegata e ricca».
Si tratta insomma di un libro che si collega e dialoga con quelli stampati in precedenza e che non si propone di concludere un prestigioso percorso poetico ma piuttosto di aggiungere a quel percorso un ulteriore e originale capitolo creativo.
La Natura così esuberante e rigogliosa nei volumi precedenti (da Distanze Fioriture a Canti territoriali) è protagonista anche di Staminali eterne ma in una forma più diluita («Echi dal verde»). Sono presenti alberi da contemplare, pioppi sonori, «pruni odorosi e fioriti», «le querce di Medesano», pini, magnolie, cedri, platani, aceri rossi, olmi, «il tiglio verde dorato», «E quelle foglie tattili, acustiche, a cui l’aria dona movimento». Il mondo animale prevale a tratti su quello vegetale a cominciare dagli amati uccelli con i loro suoni («E motivi e motivetti e melodie. […] / Il repertorio è vasto»): alzavola, rondine, gruccione, cornacchia, gazza, aironi, «il micidiale picchio contro le persiane», civette, gufi, per arrivare agli animali domestici che suscitano affetti speciali ed emozioni: il cane Black («Fu la pietà – degli occhi del cane / che mi chiedeva scusa, se non poteva circondarmi / con le sue feste […]»), i gatti Maua che «mi scruta attraverso i vetri» e Mùstafa «Il mio soriano / candide vibrisse / lucenti […]».
Bacchini invita i lettori a visitare in sua compagnia i luoghi a lui più familiari, a cominciare «dalla casa di campagna La Gatta sulle colline di Medesano, che da dimora di campagna del poeta e della sua famiglia», scrive Bertoni «si è trasformata negli anni in residenza principale e in ambiente dominante». Un immaginifico verso la ritrae in questo modo: «La casa è sulla prua d’un colle».
Assieme a Pier Luigi percorriamo «strade per la campagna / verso il fiume», raggiungiamo acquitrini e torrenti, ci inoltriamo in boschi, ascoltiamo in agosto «la lunga sonorità delle cicale» su calanchi dall’«arsura biancastra», camminiamo lungo viali di «parchi in abbandono» e «lungo la carraia di terriccio rosso».
L’io dell’autore conserva una costante relazione con una realtà esistenziale personale e familiare e insieme con una dimensione universale più ampia e dilatata che conduce lontano nello spazio e nel tempo; microcosmo e macrocosmo si specchiano nei versi di Bacchini generando un’unità dinamica e dialettica e costituiscono le due fasi complementari di un processo simile a quello respiratorio che alterna inspirazione ed espirazione.
Ogni singola persona cerca un piccolo e comodo ambiente che lo accolga ma fa parte contemporaneamente del più vasto contesto naturale che lo attornia; la sua memoria è allo stesso tempo recente e antica, il DNA conserva l’identità individuale insieme a tracce geologiche e cosmologiche di «lontane atmosfere – raggiate / e gas interstellare, / oltre il cosmo, più in là». La vita, afferma con lucidità Bacchini, «discende anche da quegli / spermatozoi glaciali che noi chiamiamo comete».
Siamo alla perenne ricerca di «[…] un angoletto / per parlare fra noi , in quiete, dei giorni, / e della miniatura del bisnonno; / e quali fiori accostare per colori e suoni […]» sapendo tuttavia che «tutto il mondo è in noi»; l’introspezione personale diventa così un’immersione in una ancestrale condizione istintiva: «Ascolto, risalgo a me, / da me, mi cerco / secondo strutture geniche, marine».
Esiste purtroppo parecchia violenza e sofferenza nei rapporti privati, nell’esistenza quotidiana, nella storia degli uomini, nella natura e nell’universo: «guerre pazze», «mille battaglie», elmetti perforati, tonfi, «urli pieni di ferocia», pianti e lacrime «con palpebre sbarrate», «un grido d’uccello / che rammenta la disperazione», «inferriate divelte», un vento che «corrode le rocce».
Di fronte a un «bene che facilmente si appisola», davanti al dolore, si fa fatica sia a rinunciare completamente a Dio, sia ad affidarsi pienamente a Lui: «i pensieri sul male / ci rendono incerti». La sua esistenza è accompagnata dall’avverbio «forse», dal dubbio («Ma forse / c’è Dio / nelle vallate»). Scopriamo e acquisiamo coscienza della sua incredibile fatica soprattutto «[…] dalle fessure, / e dai crolli, e dalle selvagge fiumane». La figura divina, che crocifissa si fa tragicamente fragile e umana, conserva intatta la sua «segreta grandezza», il suo impenetrabile mistero, l’imperscrutabile enigma da cui siamo attratti. Condividiamo con la divinità delle somiglianze e una, afferma Bacchini, «è l’agone del bene e del male / intricati nell’opera. E l’altra / è il suscitare mondi».
Due termini ricorrono frequentemente nella raccolta: “vecchio” e “vecchiaia”. Ecco alcuni esempi: «qui, nella mia vecchiaia, chiuso nella mia campagna agricola», «e io rimango un vecchio / screpolato», «cose vecchie nello specchio», la «sonnolenza della vecchiaia», «e ai vecchi dolgono le ossa», «ho molti anni ormai», «la tua vecchiaia malata?».
Alla vecchiaia si associano inevitabilmente la solitudine, la malattia, e infine l’attesa dell’implacabile morte. «E tutti, come me, tutti / avete visto qualcuno morire, anche alberi, anche fiumi» e ancora: «La morte sta in un angolo della stanza / e senza alcun tatto si specchia / in compagnia della vecchiaia […]». La morte: una presenza che riguarda le cose, gli altri, le persone care, noi stessi. Le staminali possono allungare per un po’ la vita, la poesia invece apre spiragli di lunga durata offrendo creative «[…] parole / di staminale argilla».
Nella prima intensa e potente poesia del libro, intitolata I sepolti, ambientata nel cimitero monumentale di Parma “La Villetta”, Bacchini scrive: «anch’io ho un germe vivo, eppure morirò». Questa assoluta e coraggiosa consapevolezza non comprende sgomento e ansia insostenibili ma piuttosto una «trattenuta, composta disperazione». Perché «terminata la vita ormai, / ma ancora dentro di noi, piccola, arde, / arde / una brace».
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