domenica 12 maggio 2013

A. Di Napoli sull'ultimo libro di M. Fresa



Una recensione dedicata a 
Uno stupore quieto di Mario Fresa




Mario Fresa, nato nel 1973, è uno dei poeti più significativi della sua generazione. Ha esordito nel 1997 sulle pagine di Specchio della Stampa, presentato da Maurizio Cucchi. Da allora ha pubblicato testi poetici sulle più importanti riviste letterarie (Paragone, Caffè Michelangiolo, Nuovi Argomenti). Negli anni successivi, ha pubblicato le raccolte poetiche Liaison (edizioni Plectica, 2002), L’uomo che sogna (Edizioni Orizzonti Meridionali, 2004), Alluminio, prefazione di Mario Santagostini (LietoColle, 2008), Costellazione urbana, tre poemetti, in Almanacco dello Specchio n. 4 (Mondadori, 2008) e Luci provvisorie (tre poemetti apparsi integralmente su Nuovi Argomenti n. 45, Mondadori 2009). Insieme con Tiziano Salari ha curato un volume saggistico, La poesia e la carne (La vita felice, 2009) e ha tradotto una scelta di epigrammi di Marziale (Edizioni d’arte l’Arca Felice, 2011). È presente, inoltre, nell’antologia Nuovissima poesia italiana, a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi (Mondadori, 2004).
Uno stupore quieto, l’ultima raccolta di Mario Fresa, è il lavoro della sua maturità poetica. È lo stesso Cucchi a sottolinearlo nella sua prefazione quando scrive che «in questo libro Mario Fresa dà il meglio del suo lavoro poetico fino ad oggi». 
Fresa, pur avendo debiti formativi con la migliore poesia italiana del secondo Novecento, non ha maestri e non ha contratto debiti specifici con i singoli poeti che pure intellettualmente ha frequentato e ha studiato. Il suo è un itinerario autonomo in un contesto variegato, a volte persino affollato.
Fresa è un poeta colto, raffinato. I suoi versi sono sempre misurati, equilibrati, privi di forzature ritmiche e lessicali. Fresa è consapevole non solo dei suoi mezzi espressivi ma anche utilizzatore attento del linguaggio quotidiano che sa strappare alla realtà e sa fecondarlo di ottima poeticità. Connubio perfetto, si potrebbe dire, fra linguaggio letterario e linguaggio della realtà. Ha ragione ancora Cucchi quando con acume critico sottolinea che «in tempi in cui domina una certa indifferenza verso possibili, nuove soluzioni formali, in tempi in cui prevale un certo qualunquismo stilistico, la sua voce risulta decisamente in controtendenza attiva». 
Fra  poeti della sua generazione, quasi tutti di valore, Mario Fresa ci sembra uno dei più dotati, il meno autoreferenziale, il più disposto a cercare nuove strade e a non farsi eccessivamente contaminare dalla tradizione del secondo Novecento, neppure dalla migliore. Forse, un rapporto stretto, intenso, vivace, ricreativo, Fresa ce l’ha solo con la poesia degli anni Settanta-Ottanta e con l’uso della prosa poetica sviluppatasi in quei decenni. Qualora fosse lecito accostare il percorso di Fresa a qualcuno dei poeti che hanno esordito negli anni Settanta-Ottanta l’impresa non sarebbe facole né agevole.
Il volume è composto da quattro sezioni: Storia di G. (pp. 13-25), Titania (pp. 27-43), Una violenta fedeltà (pp. 45-52), Romanzi (pp. 53-73). La vera novità di quest’ultimo libro di Fresa è che non è più possibile parlare di prosa in versi, definizione valida per le precedenti esperienze. Fresa ha osato e rischiato di più: dalla poesia in versi, in cui si esprimeva benissimo, è passato a racconti brevi, talora brevissimi, in versi, come quelli pubblicati nella prima parte del libro, Storia di G., nella terza, Una violenta fedeltà e nella quarta, Romanzi, fatta eccezione, forse, solo per gran parte delle poesie pubblicate nella seconda sezione, Titania, che è anche la più nutrita del libro.


 Alessandro Di Napoli




















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