lunedì 11 marzo 2013
Su Verticali di Bruno Galluccio
Einaudi, 2009
recensione di Dante Maffia
Si è vociferato per lungo tempo sulle pagine dei giornali, soprattutto negli anni cinquanta, sessanta e settanta che molta della poesia e della narrativa italiana, che avevano importanza, era frutto di uomini di scienza e della tecnica. E giù i nomi di Sandro Penna (ragioniere), di Leonardo Sinisgalli (ingegnere), di Salvatore Quasimodo (perito agrimensore), di Eugenio Montale (studente delle scuole professionali), di Carlo Levi (medico), di Carlo Emilio Gadda (ingegnere). Naturalmente l’elenco si allargava coi nomi stranieri con in testa Celine. Un vezzo che conteneva qualche verità? Un caso? Una verità che svezzava dagli eccessi del classicismo la scrittura? Forse tutte questa cose insieme, ma ce ne corre poi dall’affermare, in maniera categorica, che il Novecento italiano si sia mosso in una sola direzione, anche perché a guardare bene poi il classicismo di ritorno è stato adoperato proprio dai così detti tecnici, Quasimodo e Penna in testa.
Premessa doverosa per poter entrare senza pregiudizi e senza convinzioni errate nel libro di Bruno Galluccio che, essendo un fisico ed avendo lavorato per anni in un’azienda tecnologica, si è tentati di “schedarlo” come frutto di quella stagione complessa a cui ho accennato.
Bruno Galluccio è poeta con e senza la sua fisica, con e senza il suo linguaggio improntato alla scienza, perché vive intensamente le angosce del nostro tempo nel quale non trova la chiave di volta per scoprire i misteri che accompagnano l’uomo e se il suo linguaggio, apparentemente fiorito di nessi e di sconnessioni, sembra deviare dal percorso, è perché la rincorsa per focalizzare certezze non trova slarghi, non trova traguardi e apoteosi. Egli cerca di focalizzare il nonsenso del fluire del tempo e delle cose per far scoppiare la sua angoscia in frantumi dinanzi al fluire degli eventi.
Non c’è idillio, non c’è lirismo giocato sull’armamentario della tradizione e non c’è ricorso ad attributi del serbatoio degli archetipi, ma c’è la forza del canto, un canto che sa guardare alla fermezza di Rilke, per esempio, e che quindi non divaga, non concede al gratuito, al sentimentale.
Eppure se si entra dolcemente nella sintassi di Verticali, nella sua necessità di chiarire e di capire che chiarendo tuttavia non si va da nessuna parte, anzi… si capirà che Galluccio non forza le metafore e che le pone in essere per farle fermentare, consapevole che si riparte sempre e che gli approdi sono momentanei ed effimeri.
Da qui l’angoscia ancestrale che serpeggia nelle pagine, quel mistico e ombroso dubbio che sfoglia i significati e li sparge come semi che però delirano e delirando si tuffano in altro senso. Il poeta ci fa entrare in un ruotare infernale di accensioni che si sfaldano e si ricostruiscono, che lacerano le apparenze e subito dopo le riverniciano di nuova approssimazione semantica. Un andare rutilante, un’orgia di sogni che s’avviluppano e scantonano, che riordinano il passo e subito dopo lo spingono nel baratro.
In questo modo Galluccio ha l’agio di disseminare di enigmi sogni e realtà in modo da crearsi l’illusione che prima o poi arriverà a un poggio da cui sarà possibile vedere, proprio come è detto nell’Aleph di Borges, presente, passato e futuro.
Intanto è inchiodato a percezioni scomode, a un dolore sordo che spesso non sa nemmeno da dove arriva e quando e per quale ragione finirà E così rincorre il mutevole, il fuggevole, l’imponderabile e per salvarsi si dilata e si trasforma “in simboli capaci di spostare verticalmente le immagini, le distanze, i nodi irrisolti”.
Siamo dinanzi a una poesia che mi verrebbe di chiamare mutevole, che si “adatta” alla temperatura del lettore ed è perennemente pronta ad essere duttile e malleabile. Ciò significa che Galluccio sa assegnare alla parola una dose di energia che non si disperde in cunicoli aridi, ma che diventa lievito e proposta di nuove essenze. Così si giustifica l’appassionato uso dei termini matematici e fisici, i concetti che nell’impatto respingono fino a che non si stabilisce la sintonia, perché “i residui cercano ogni occasione per abitarci”.
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