martedì 31 luglio 2012

Mario Fresa in una lettura di Monia Gaita




     La pastellare saldatura tra poesia e prosa che Mario Fresa sapientemente scaletta nelle pagine, è una scelta di campo convinta e responsabile per conquistare lo scettro di complesso della realtà vissuta costringendo la mente a muoversi con scorrevole scioltezza nell’organizzata somma di vicende sparse, composizione e forme di persone, rapporti causali e misurabili, piani inclinati di voci e accadimenti. E per comprendere la natura occorre leonardianamente tornare all’esperienza- sembra suggerirci Uno stupore quieto- sotto la scorta dal manto screziato di azioni e gesti quotidiani che cercano i fondamenti supremi e ultimativi nell’ontologico sostrato scricchiolante del finito e del condizionato. L’osservazione di Fresa, umoristica e impietosa, scroscia furiosamente nelle pianure di un’onestà descrittiva scrupolosa e analitica che punta a scrutare, imbastendo un discorso del tutto personale, l’invalicabile profondità dei limiti umani. L’anello congiunzionale tra istante ed eternità, immanenza e assoluto, è ravvisabile forse in un linguaggio volutamente sliricato che richiede al lettore un certo periodo di sedimentazione appercettiva prima di poter approdare nel pannìcolo adiposo di un Tempo-Spazio che non ha nulla di logicamente programmato, ma che si fa selvaggia, proliferante attività produttrice di vizi, bellezza, paure e tradimenti: “Faceva così anche il tuo amico, G; te lo ricordi?-v.pag.16- Quello che apre, ogni mattina, con esasperante/ lentezza,/ il negozio di occhiali di finto lusso,/ poco faticosamente ereditato da suo padre;/ e, visti gli sparuti clienti, apre a stento il suo piccolo/ diario per lasciare una breve/ traccia di sé. Non parla quasi di niente.../Perciò indirizza i suoi discorsi sul vago: tentenna,/ ridendo ottusamente, e alzando un poco, solo un/ poco, le sue misere spalle: chiede un conforto silenzioso a/ sua moglie,/che gli rivolge, quasi sempre, uno sguardo/ di rattristata commiserazione.../” E ancora a pag.70: “ Ma chi mi salverà, pensavo, quasi piangendo;/ chi mai mi salverà da queste mani/ che hanno smesso di capire, da queste mani che si/ fanno più fragili/ e più esperte, più dolci e più cattive?” Eppure, se gli altari del sereno appagamento, ma anche di un più universale senso di armonia con l’altro, vengono continuamente profanati, l’imperativo proibitivo “non arrendersi” prolunga le proprie rampicanti vibrazioni col pronto rimedio di un riparo dalla pronuncia netta che pare migrare, quanto risolversi, in un pacificato dissidio interiore: “ In una casa dagli ampi spazi bianchi, bada, ci/ riconosceremo -v. pag.37- subito, d’istinto (facendo niente, però)./ Sì, dolce impresa, sì. Forse sapremo./ Per quell’inverno ingombro di curiosi/ avvistamenti – poco dormire, lavare continuamente;/ pulire il già pulito – pensando solo a sé;/ oppure, infantilmente,/ carezzare il delicato, finissimo tessuto...//Dopo tutto ho visto te, perfino in questa/ gonfia, buia discesa” cui seguono i felicissimi versi (v. pag.51): “La sua risposta è pronta, disarmante: la voce querula,/ ma colma di delizia./ Eppure càlmati, mi dice. Le nostre camere/ saranno ben sicure, perfettamente/ sigillate./ Ma tu non farmi attendere./ Curami, curami ancora...// Tu morbida, preziosa forma.../ Tu, piccola cara...” È vero per il poeta che Anche scendere dal letto è un’incredibile sfida agli eventi (v. pag.72), ma è altrettanto vero che l’ironia, srotolata un po’ dovunque nelle pagine, erige un palco di sbuffante leggerezza, sorretto da un preciso e puntuale meccanismo formale teso a una rifondazione in chiave alternativa e attualizzante di un codice comunicativo più colloquiale e non per questo, meno alto, germinativo o fecondo.
  In questo libro il polso della vita non batte sempre euritmicamente, ma si affida pure all’esemplare estro di certi scatti improvvisi e imprevisti, alle fiamme estuanti dell’erompente divenire, al filo elastico di estemporanee implicazioni, per cui, la riuscita operazione poetica di Mario Fresa, sta nel non nascondere le cose e la loro άλήθεια sotto l’equivoca etichetta di un dire edulcorato o diluito: un’entrata in carica di un eclatante percorso di dissimulazione, capace di diteggiare sull’enigmatica varietà di toni, echeggi, sviluppi ed effusioni dell’animo.
  
 





    Mario Fresa, Uno stupore quieto

     “La collana”, edizioni Stampa 2009

   Prefazione di Maurizio Cucchi 














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