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L’ultimo
titolo in rassegna si distanzia notevolmente da tutti i precedenti. Magari in un’ora del pomeriggio di
Davide Valecchi mantiene forse qualche affinità tematica con la raccolta di
Meozzi, ma la grande uniformità metrica e la forte patina arcaizzante ne fanno
un lavoro decisamente a parte, quasi anacronistico esempio di un petrarchismo post litteram, eppure profondamente innestato nel mondo attuale, con tutte le sue
più recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche. Il che non si direbbe,
scorrendone rapidamente le pagine, dominate da una natura sovrana e
incontaminata, come già ben dimostra la cornice grafica della foto di
copertina. Eppure, in quest’ambientazione calma e idealizzata fanno capolino
diversi elementi della moderna tecnologia («sei solo un’immagine che si sfalda
/ in grani di pixel», p. 34), se non vere e proprie dissertazioni
teorico-scientifiche (come quella sulla «luce corpuscolare» sviluppata a p. 47).
Viene
quindi naturale parlare di petrarchismo, sia per l’attento controllo del
linguaggio e della metrica (dominata – anche se non assolutamente –
dall’endecasillabo), sia per le scelte tematiche, che pongono al centro una
figura femminile “in assenza” e la natura riletta attraverso i segni del suo
passaggio, ma anche inaspettate apparizioni notturne, che hanno tutto il sapore
di post mortem della seconda parte
dei Fragmenta:
A
volte la tua ombra
mi visita nei
sogni
lasciandomi
frammenti
di vita
immaginaria
che attraversano
il giorno.
(p. 25)
Già
questa breve lirica dimostra il forte controllo metrico imposto da Valecchi sull’intera
silloge: cinque settenari (alternativa “canonica” dell’endecasillabo) la cui accentazione
uniforme subisce solo nel finale una leggera variazione.
È
tutto un gioco di strutture che si ripetono senza mai tornare identiche, questo
Magari in un’ora del pomeriggio. Un
gioco che può forse infastidire il lettore più bramoso di emozioni, nella
constatazione della sua artificiosità – asservita, poi, a forme che hanno ben
poco di sperimentale. Ma rileggerlo con ben fermi nella mente i cardini attorno
a cui ruota, può aiutarci ad apprezzarne il movimento concentrico e sempre
variato. Tre elementi tornano in tutte le liriche, oltre la costante presenza
di “Lei” e del suo paesaggio: la luce intensa e pomeridiana, ma anche effimera,
sul punto di spegnersi; le parole, o meglio l’assenza e incomprensibilità delle
parole, espresse in «una lingua / di cui non possiedo nessuna nozione» (p. 18);
e infine i frammenti, la polvere a cui tutto questo, inevitabilmente, si
riduce.
Infine,
quando la luce del giorno
scompare e anche
la cera quotidiana
può essere smessa,
resta delle ore
alle spalle una
polvere sparuta
di pertinenza
incerta, annidata
ai margini di ogni
percezione,
senza nessuna
parola possibile.
(p. 46)
Ma
pur nel graduale “spegnimento” di questi ultimi versi, l’auspicio della
presente rassegna resta quello di segnalare un momento di apertura. Per una poesia
che forse manca ancora di una sicura identità generazionale, ma che conferma la
sua vitalità attraverso queste voci, in attesa della convalida di un ascolto
finalmente interessato.
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