recensione di Marcelllo Tosi
v. scheda del libro
Discorso compiuto dis-correndo nello spazio della pagina, sullo spazio, a
cui si aggiunge una nuova dimensione verticale e orizzontale, quella
della poesia quadro-dimensionale di Mori, che “ad intersezione del
raggio, spazia carne prensiva appianante”, diventa proseguimento
dimensionale nel tempo.
Uno spaziare che è costruzione della
superficie, disporre tessere infermate, tracciare losanghe che si
perdono sul pavimento, nuovi “paesaggi poetici”, che appaiono quasi
ghirriani nell’intersecarsi delle linee optometriche ordinate “a
disporre sollievo terreste alle tangenziali”. Segni impressi sulla
tavola / lastra, “al punto sovrastante / conosciuto nel tratto /
soltanto nell’ottica del perdimento”. L’infinita motezza di un movimento
oscillatorio, come un pendolo “lavoro al tempo / ricompone saggezza
deposta”.
Discorso sulla voce, sentita non più come l’eco della
manzoniana discesa di una provvidenza che “atterra e suscita” (come nel
“rovesciamento miracolo”, evocato dall’autore, del San Marco del Tintoretto), ma vive come ciò che “atterra e scorre / impronunciato /
aderito al vocale radente”. Non sono più le montaliane cose oscure, ma
“la chiarità dell’ora intaglia l’ombra fresca” a divenire condizione
plasmatica esistenziale, concentrato d’inerzia, fluorescenza dissolta
dalle parentesi accese”. Il verso si estroflette ed esula, si muove come
“parola d’animazione… nel territorio comprensivo della lettura”.
Una
diversa allargata dimensione spaziale, ipermondriana, in cui il
quadrato desitua, l’angolo diviene “dicitore rotorio”, secondo un nuovo
schema visivo composto e composito, e l’iperbole che si lancia, la
litote asciugata, sono ombra del timbro sonoro. Una trazione visiva che
scandisce “alternanze / video triangoli nel default del vuoto”, che da
“afocus immette nella visione”, sgranata in pixel molecolari.
Nuovi frames, divenute una “Vertigo” hitchcockiana, che “ascolta
spirale” di versi, che si muove cine come un lungo o breve piano
sequenza, secondo richiamo del fotogramma “mentre nasce immagine
frontale”. Nel fine ralenty, in “still frames orografi”, l’asincrono
delle scene può essere ricomposto soltanto nelle stasi cromatiche del
diagramma, “nelle fotocamere dei visitatori”.
“Flap bianco”, il
piano rimane per essenza / riequilibra riflessi affilati dai suoni”.
Quindi è discorso sul silenzio, pausato, spaziato, voluto, dilatato,
come in Cage, grazie al suo piano “molto preparato”, anzi ad un
neoverbigerante “IperCageSystem / nelle Chiavi & Martelletti”,
ovvero ad un’orchestra che produce parole, come uno spettro estensivo e
poi modulato, sequenza che cresce e scivola, ora mormorio vivo, segno
cresciuto sul bordo “poi mutacico / off / spento / ma ancora… articolato
al labbro”.
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