recensione di Monia Gaita
La paura per l’indeterminato è la catà basi dei vivi nel mondo degli errori (v. pag. 16): “... La vita è un fine / che non si può risolvere / - un temporeggiare / l’ansia nascosta del respiro.”
Ma quale stratagemma può opporre il poeta se (v. pag. 58): “... il nucleo forte manca o supera la nostra misura”, se il carovaniero carico delle sue cedevoli forze non basta a soccorrerlo nel dubbio centralista? Ecco quindi sopraggiungere una colmezza che non conosce vuoti, una coesione di spirito e materia in cui sperare e confidare (v. pag. 54): “... Ho bisogno di un esserci / che non sia mio/ né semplicemente nostro: / desideriamo tutti/ oltre il nostro – amare. / Vorrei abbracciarti come San Bernardo / in quest’arco di tempo così teso/ in cerca del bersaglio.”
E il Dio di Alessandro cònfla tutte le cose della sua sostanza, ne condisce di bellezza montagne e paesaggi, sentieri e territori (v. pag. 36): “I luoghi visitati mi hanno inciso / fino a farne la mia topografìa.”
La poesia tornisce, così, la disincagliata cornice della sua causalità più pura e tra infinite costrizioni e costruzioni frante, l’autore, nella discoperta congiuntura con l’Assoluto, controsoffitta i propri giorni di disvolta volontà di fare e di un’ontologica meravìglia che ne impedisce la scissione completa col mondo.
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