recensione di Monia Gaita
In questo libro Alessandro Ramberti è urgenzato da un imponente seguito d’inadempìbili domande che, rispettando i segreti dell’Inconoscìbile, tentano la rotta ordinaria di uno schema di verità dallo stemma logoro e incorrotto dei riti quotidiani. E se il sogno precìpita a scaglioni d’incurvita durezza verso il fondovalle di una ragione sapiente e riflessiva “Forse la luna – v. pag. 27 – ci parla / anche oggi / con le sue macchie / nel firmamento buio; / magari / ci sorride / per disciogliere il calcare / dei nostri passi” quasi a incanalare le acque dei versi nelle zone di bonìfica di un sollievo consolatorio e conteso. La prevalenza del costrutto ipotattico e della coniazione aforismatica (v. pag. 20): “I soliti motivi rimbalzano / come calci sospirati dalla terra / freme lo stagno della logica / nella mia cassa di vento / incarto domande” e a pag. 26: “Il carico più grave non ha peso / il sentiero più bello è quello ignoto / la paura peggiore la solita” codìfica una verticalizzata connettitura della cifra espressiva a capogruppo di un dire condensato e contratto, incline a catalizzare oltre a un potenziamento di senso esposto e riposto, anche la catechèsi costellata del silenzio, di quello spazio bianco che sfugge alle convèrse castiganti delle scelte.
La paura per l’indeterminato è la catà basi dei vivi nel mondo degli errori (v. pag. 16): “... La vita è un fine / che non si può risolvere / - un temporeggiare / l’ansia nascosta del respiro.”
Ma quale stratagemma può opporre il poeta se (v. pag. 58): “... il nucleo forte manca o supera la nostra misura”, se il carovaniero carico delle sue cedevoli forze non basta a soccorrerlo nel dubbio centralista? Ecco quindi sopraggiungere una colmezza che non conosce vuoti, una coesione di spirito e materia in cui sperare e confidare (v. pag. 54): “... Ho bisogno di un esserci / che non sia mio/ né semplicemente nostro: / desideriamo tutti/ oltre il nostro – amare. / Vorrei abbracciarti come San Bernardo / in quest’arco di tempo così teso/ in cerca del bersaglio.”
E il Dio di Alessandro cònfla tutte le cose della sua sostanza, ne condisce di bellezza montagne e paesaggi, sentieri e territori (v. pag. 36): “I luoghi visitati mi hanno inciso / fino a farne la mia topografìa.”
La poesia tornisce, così, la disincagliata cornice della sua causalità più pura e tra infinite costrizioni e costruzioni frante, l’autore, nella discoperta congiuntura con l’Assoluto, controsoffitta i propri giorni di disvolta volontà di fare e di un’ontologica meravìglia che ne impedisce la scissione completa col mondo.
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