giovedì 1 settembre 2011

Su Il verbo infinito di Giuseppe Carracchia


Casa Editrice Prova d’Autore Catania, 2010
recensione di Caterina Camporesi
 
Giuseppe Carracchia è un  giovanissimo e promettente poeta che vive in Sicilia. A diciassette anni pubblica la sua  prima raccolta, Pensieri notturni, alla quale due anni dopo segue,  Anime vagabonde.
La terza raccolta, Il verbo infinito,  è seguita da  La virtù del chiodo (Edizioni l'Arca Felice).
L’esergo che precede il volume del quale qui ci si  occupa –  La semplicità non è il punto di partenza, ma il fine –  annuncia  le tappe di un  interessante  percorso  umano e di una specifica scrittura  poetica.
Il volume è suddiviso in sette sezioni, tutte intitolate con verbi all’infinito: Fiorire, Esistere, Amare, Riposare, Sbendare, Condividere, Vivere.
Le sequenze marcano il cammino  dell’esistenza, che inizia con lo sbocciare della  stessa per arrivare a conquistare nel tempo mete sempre più complesse e necessarie al laborioso “mestiere di vivere”.
Nel Fiorire, la primavera dell’inverno, che ha già negli occhi il biancoforte dei mandorleti, fa pregustare   la conquista di una vitalità duratura, perché il meglio tende a restare, nonostante la morte, che è  un soffio di vento che ti porta solo più in là.
Nell’Esistere, è la figura retorica dell’ossimoro a  suggellare  in modo  efficace e incantevole la forza della libertà che al contempo unisce e disunisce.
L’amore ha la prerogativa di  conservare e moltiplicare la profondità e la bellezza, lasciando nell’ombra le componenti razionali o razionalizzanti della conoscenza: Se chiedi a me perché  / amore, ti rispondo non so / e se so non capisco.  (…)  perché il nostro amore / è più grande del sapere / e cresce.
L’amore, ancora poi, dovendosi nutrire di vero, non può rinunciare al coraggio della  libertà, quella di andare e tornare: amare è credere che ci sia qualcosa / da cui fuggire e qualcosa a cui tornare.
Nel Riposare, all’affanno che cadenzano  le ore del giorno, segue infine la dolcezza che contraddistingue la notte, quando finalmente essa accoglie corpo e mente, lasciando fuori dall’uscio tensioni e preoccupazioni.
Gli affetti famigliari circolano in ogni dove in queste pagine, in particolare quelli legati alla figura paterna alla quale è dedicata la sezione Sbendare.
Qui il poeta reclama il diritto di crescere assecondando i propri tempi, e, se una perfezione c’è da raggiungere, essa si conquista con una quotidiana cura dell’imperfetto.
La messa in campo dell’impegno nobilita l’esistenza dell’essere umano: ogni istante assume in sé il significato dell’eterno.
Nella sezione Condividere, oltre all'amore che dona significato al tutto, è esaltata l’amicizia come balsamo terapeutico e salvifico nei confronti tanto delle insidie quanto dei  dolori dell’esistenza: un amico è il miglior sarto / rammenda la ferita della vita ed evita l’infarto.
La raccolta si caratterizza per neologismi, vocaboli intriganti, come “acconcata”, “spagliare”,  “allunaggio” e anche per accostamenti audaci come  “dattilografare garofani”, in omaggio  alla Ragazza Carla e al padre Elio Pagliarani.
Il vocabolo vento compare frequentemente, “riempirsi di vento”,  “seminare il vento” , “sagome di vento”, “al vento prestavano i corpi”  sono solo alcuni dei numerosi esempi.    Volendo indicare la cifra poetica di Giuseppe Caracchia, mi pare che essa  possa essere rintracciata nell’intricato “mestiere di vivere”, essendo la vita stessa l'avventura più appassionante che, più di tutte, richiede serietà, impegno e costanza  al fine di accogliere gioia, dolore, fatica, tristezza, progettualità ed entrare  così interamente dentro il mondo superando modalità solipsistiche.

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