lunedì 18 luglio 2011

Su Kairos di Sebastiano Adernò

Fara Editore 2011

recensione di Narda Fattori


Per gli antichi greci c’erano almeno tre modi di indicare il tempo: aion, kronos e kairos. Aion rappresenta l’eternità, comunque l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; kronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore, il tempo dei calendari, delle agende di lavoro; kairos  indica  il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, con una certa approssimazione, quello che noi potremmo definire il tempo debito.
Titolo cólto, dunque, per questa raccolta di Adernò, poeta giovane ma di ricca e multipla esperienza di comunicazione; qui il tempo è quello a cui si è pervenuti dopo percorsi errabondi e dolenti che sono giunti fino a annichilire l’io che è sempre avido e sempre fragile, tutto dentro kronos, ma con la certezza che esiste aion e che forse si è finalmente giunti a kairos.
Aion qui è Dio, la Sua voce, la Sua chiamata che esige una risposta che non si riesce a far pervenire nel rumore di minutaglie assordanti, nella debolezza del castigo comminato.
È un libro che testimonia una palingenesi, la nuova rinascita giunto il momento debito, ovvero fatta chiarezza sulla meta del percorso.
Il libro si apre con un assunto significativo: Un uccello cadrebbe, / se avesse la percezione / di stare volando. Questo assunto chiarisce il mistero del volo, il mistero della fede, l’inconsistenza delle sole risposte di scienza. A questo assunto ne seguono altri, brevissimi, quasi epigrammatici e sapienziali, se non contenessero un visione circolare, a tutto campo costruita con metafore ardite e puntuali procediamo scalzi / negando che altro esista. Il Tempo, Kronos, aspetta al varco, ma l’arca fu costruita prima del diluvio, pertanto salvifica fino in fondo anche se, procedendo, scopriremo  che Al ramo più robusto / pende il torsolo / di un Cristo mai colto. Questo immaginifico verso ci conduce a una ipersemantizzazione del Cristo, frutto, assassinato, preso a morsi per fame, per dispregio. Resta l’immagine di grandissima forza comunicativa, qualunque sia il percorso di senso preso. Ma  esiste questo affanno a procedere sempre in avanti, intasandosi la mente di scorie pensierose, che occludono ulteriormente la visione ma tutto diventa importante, anche il tramonto vero e metaforico che ci opacizza nel tempo  (e nella vita) si spera duri finché/perché la nostra noia diventi sublime.
Si aprono squarci di quotidianità  nutrita spesso il dolore che ci assimila al Crocefisso, ai fondamenti della Passione: il tradimento. la distanza.
Nel tempo l’uomo è fuscello che è frustato dai venti e cerca di trattenere la scintilla divina all’interno di sé, ma già dall’inizio era tutto segnato con la separatezza.
Così con due versi bellissimi, titolati “epigrafe” Adernò ci fornisce la più autentica chiave di lettura dell’esistenza dell’uomo: conosceva due tipi di sangue / quello che taglia e quello che unisce.
Il dolore, il male, la bruttezza e l’amore, la bellezza, la gioia.
La poesia che chiude il libro non è meno emblematica, solo più distesa. Mi piace qui riportare l’ultima strofa:
Con un credo sotto la pianta del piede destro,
e un chiodo al centro della fronte
il Santo afferra il permesso,
appende il capolavoro,
tenta con l’indagine
di sottrarsi alla fame, alla sete, al tempo.
Questo santo è l’uomo e per Sebastiano è giunto il tempo, kairos, di annunciarlo.


2 commenti:

Sebastiano Adernò ha detto...

Grazie,
per la immensa gioia che mi hanno appena dato le tue parole. Riuscire a trovare un argine di corrispondenza
capace di cogliere con tanta genuinità l'intento dei miei versi ha il sapore integro del Bello.

Ti ha detto...

bravi ad entrambi