mercoledì 15 giugno 2011

Mario Fresa. Ritratti di poesia (17)






 Sebastiano Aglieco






Lo spazio ideale della meditazione di un poeta è sempre inciso tra due termini essenziali: l’aspettazione e il ricordo. Entrambi sono percepiti nella fluttuazione di quella rovinosa gloria che noi chiamiamo «tempo»: deserto ignoto, luogo dell’arbitrio; mappa di illusioni e di simulacri perituri; oceano dagli impensabili risvolti. Scrivere poesia è dare (o ridare) fiato all’assenza, è riassegnare un luogo ai nomi perduti; è restituire un suono, un profilo, un volto a ciò che non è più o a ciò che un giorno potrebbe esserci; è, insomma, il tentativo di offrire una terra al vuoto.
E l’altezza, l’irreparabilità, l’autorevolezza grandiosa di ogni verso sono date, appunto, dal nobile e coraggioso gesto di accoglienza di quel vuoto che dispera costantemente di essere colmato, compreso, de-finito. Grazie al poeta, chi è giunto all’altra riva del mondo (la riva del passato, del silenzio, del distacco) torna ad essere potentemente vivo e presente. Si ricordi Fortini: «quando si dice così eloquentemente di voler essere dalla parte dei morti e dei non nati, significa che non lo si è veramente ancora o meglio non si è ancora capito che l’altra riva non c’è e che i morti e i non nati esistono con noi su questa riva».
Questo è l’unico modo per intendere la commossa riflessione sulle contusioni della memoria e del ricordo, e sull’impossibilità di “possedere” il tempo, che è operata da Sebastiano Aglieco nel suo libro Nella Storia. Poema per una terra (Aìsara, 2009). I testi di questa silloge sono raccolti come intorno a un unico fuoco centrale: e cioè la consapevolezza che il ruolo della ricerca poetica non può non coincidere con il raccontare e con il «riannodare», restituendo la dignità di una nuova vita a ogni istante scomparso.
Le immagini registrate e trasmesse da Aglieco sono proiezioni di guerra e di umana comunione, di mestizia calorosa e di gioia silente, di disperazione e di riscatto; e soprattutto s’intende, qui, il dono della scrittura come un supremo atto di giustizia. Perché ciò che riemerge dalle piaghe della Storia e delle storie si riconcilia nella purezza di un gesto generoso, che è quello di rendere daccapo la vita ai dimenticati, ai cancellati, ai sommersi, per il tramite della parola: ed è così che la poesia si difende, con una momentanea rivincita, dal processo di distruzione e di disgregazione della morte.
Scrivere è, dunque, una riabilitazione degli assenti e una risorsa finale per chi voglia sperare nel  passato: ipotesi, quest’ultima, senz’altro assurda, certo, e dolcemente visionaria; ma l’unica, forse, capace di restituirci il desiderio di accettare, e di condividere, il «soffio gelido» in cui una voce lontana, insieme estranea e familiare, si affratella, per un momento, con la nostra.








Esiste la conformità a una legge
uno schianto della luce
che bisogna governare
il latte del mattino
la corrispondenza dei fratelli.

La parola ha un fiato lungo
una retta infinita
che ci attraversa una mattina
con il dolore di una precisazione.








Sebastiano Aglieco è nato a Sortino (SR) il 1961. Ha pubblicato diversi libri di poesia: Minime (1984), Grandi Frammenti (1995), Le colonne d'Ercole (1996), La tua  voce (1997), Giornata (2003, premio Montale Europa 2004) e  Dolore della casa (2006). Da molti anni si occupa di teatro in ambito educativo, come regista, attore e formatore. È vicepresidente dell’AITE, associazione italiana di teatreducazione.Il suo lavoro critico è raccolto nel volume Radici delle isole, i libri in forma di racconto (2009).
 

1 commento:

red maltese ha detto...

molto bella e "giusta" questa nota di Fresa.
un libro davvero riuscito.
roberto (di passaggio)