lunedì 2 maggio 2011

Su Colibrì di Anna Maria Tamburini

recensione di Giovanna Scarca pubblicata su «Città di Vita» novembre-dicembre 2010

(versione integrale qui)

I versi di Anna Maria Tamburini nascono dall’attenzione acuminata di un sentire che palpita in comunione col creato, e attende vigile l’intersezione di tempo ed eternità, dalla quale gocciola la poesia, l’arte, la preghiera. L’attenzione di Anna Maria cresce educata e scavata dalla Parola, meditata quotidianamente anche attraverso lo specchio luminoso della letteratura e della poesia, che di essa è mediazione.
Le poesie di Colibrì distendono una visione che mai declina a cronaca, svolgendo un percorso in quattro sezioni la cui ambientazione, soprattutto nell’ultima parte, ha affinità con i Quattro Quartetti di Eliot, uno degli autori di riferimento negli studi di Tamburini: un viaggio marino (sull’equoreo seno), terrestre (affiora l’adamàh) e celeste (alle superiori acque) verso il compimento che è al contempo la sorgente del mistero dell’esistere, il puro fuoco, lo Spirito divino che crea, custodisce e infiamma l’anima.
Sull’equoreo seno (frontespizio che echeggia la sua formazione classica, da Virgilio a Leopardi) introduce nel primo quartetto, dominato dalla distesa marina dell’Adriatico e dai bagliori dell’aurora orientale, dove “capriòlano” coppie di delfini e s’intrecciano cavallucci di mare. Mentre la luce penetra verso il basso e rifulge verso l’alto, analogamente  si sdoppia la voce poetica, alternando testi in carattere tondo ad altri in carattere corsivo, evocanti altre presenze e ulteriori nessi.
Questa modalità dialogica assai originale, che moltiplica gli orizzonti semantici ed esistenziali, suggerisce al prefatore, Gianfranco Lauretano, l’ardente definizione di “poesia sponsale”: è nuziale infatti la vocazione poetica e spirituale della Tamburini, non solo per la dedica (“a Paolo, mio compagno e sposo”) ma per la costellazione tematica e lessicale che insiste su “incontro”, “incrocio”, “abbraccio e intreccio fecondo”, “richiamo d’amore”, “chiamata”, “di amorosi sensi corrispondenze” (dai Sepolcri del Foscolo), cogliendo e restituendo in ogni pagina il dinamismo comunionale che muove la creazione.
Affiora l’adamàh  rimanda a Genesi 2, 7: “il Signore Dio plasmò l’uomo (in ebraico adàm) con polvere del suolo (adamàh)” . Nel secondo quartetto il paesaggio marino lascia il posto agli “strati della terra / lungo cicli di ere / minerali”, e alle creature animali e vegetali: “lo smeraldo” delle libellule che sfiorano il torrente, “la fede del fiore”, l’orso che cede al letargo, la biblica e pascaliana canna vocale al vento, figure che Giorgio Barberi Squarotti apprezza come nuove e mirabili.
Alle superiori acque contiene il cenno delicato e discreto del luogo che ispira l’incantata visione: i giardini della Mortella nell’isola d’Ischia, col loro tripudio edenico di fiori, piante tropicali, fontane, serre e azzurre vertigini.
Immersi nella bellezza del visibile e dell’invisibile, i versi di Anna Maria scorrono felicissimi e cantanti, nell’estrema distillazione lessicale  e ritmica e con purissime allitterazioni che ricamano dettagli ed evocano mondi. L’ape dell’amatissima Emily Dickinson, poi il colibrì e infine il merlo:
 
all’ape amica mia
la dissoluta di rugiade
che calici deliba
nel visibilio di aromi
(pag. 32).

Nell’ultimo quartetto, l’omaggio alla vita contemplata nelle sue quotidiane epifanie, si accende di un fuoco mistico che svela la scaturigine e il fine della creazione: fuoco, vita e amore sono le parole che legano gli ultimi sette componimenti, in cui il “giardino della mente” di Anna Maria Tamburini dialoga con alcuni poeti amici e maestri, per ripetere insieme a loro una sapienza antica ma sempre da riscoprire. Il primo nome a essere delicatamente evocato è quello di Vittoria Guerrini, nota come Cristina Campo, e la sua sublime Missa Romana, la prima poesia liturgica edita nel 1969, alla quale Anna Maria ha dedicato un importante saggio di lettura (in “Città di Vita”, luglio-agosto 2008). Nel penultimo componimento è riconoscibile l’omaggio al genio russo Pavel Florenskij il quale, scrivendo ai familiari dal lager delle isole Solovskij, eludeva la censura e la proibizione di parlare di Dio usando il linguaggio cifrato e simbolico dell’aurora boreale e riuscendo così nel “paradosso del dire Dio lasciandolo non detto” (dall’introduzione di N. Valentini a P. Florenskij, Non dimenticatemi, Mondadori, 2000).
Che sia proprio questo l’aureo segreto della voce poetica che stiamo ascoltando? Che contempla la creazione e ne compone un inno, senza nominare il Creatore se non con rari nomi obliqui? (Solo a p. 30 leggiamo “la gloria del Dio vivente”, successivamente: Parola, Cielo, Spirito).
Se fosse così, potremmo riconoscere in questi versi una scelta corrispondente alla trasfigurazione del linguaggio della Dickinson e alla poesia della vita di Agostino Venanzio Reali. 
Di queste parole che benedicono la creazione e l’umanità, siamo grati alla poetessa riminese, e chiediamo la grazia di abitare il suo stesso sorriso.

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