venerdì 15 aprile 2011

MI SALVO' L'ALA SONORA di Sylvia Pallaracci (Lietocolle) - Recensione di Federica Volpe




Mi salvò l’ala sonora è un vero e proprio canzoniere erotico tutto rivolto ad un “tu” che diviene coprotagonista dell’io poetico.
Il discorso tenuto dalla voce suadente di Sylvia Pallaracci, però, utilizza l’amore e la carne per arrivare al nocciolo duro del suo stesso essere, come se solo il contatto con l’altro possa diventare elemento rivelatore della propria natura, della propria essenza.
In qualche modo l’amore diviene mezzo conoscitivo e di indagine per Sylvia, la quale solo attraverso di esso entra a contatto con la realtà, ma non la realtà esterna e contingente, piuttosto la realtà interna e segreta che diventa campo comune dell’io e del tu, che scivola lento nel noi come in un sogno o in una fiaba.
in La terra di mezzo la poetessa parla “di un appuntamento / sopra un ponte / nella mezza terra / di nessuno / che si fece / Universo / appena afferrammo / e unimmo / i nostri lembi / di vita”.
L’idea dei corpi che si uniscono a formare un mondo a parte nel quale tutto è escluso se non l’amore che essi provano ed esprimono (idea che ricorda molto quella contenuta nella celeberrima lirica I ragazzi che si amano di Jacques Prevert) è ricorrente nell’opera prima della Pallaracci, come una ossessione di congiunzione dei due che nell’amore devono diventare uno, e in quell’uno una risposta, una salvezza.
Nella poesia Fuori stagione, per esempio, troviamo questi versi: “è malizia ermetica / quell’assorbirmi in te / e nel tuo trasporto abissale; // il sole sfora solo / quando divaghi / gli occhi dai miei”.
O ancora, nella lirica Dove ritorna la mia storia vi sono splendidi versi come “Mi aggrappo al tuo corpo / come a un diritto naturale”).
Il corpo (di cui abbiamo infiniti ed interessanti richiami), dunque, è mezzo che porta all’unione per natura, una natura che a volte porta a contrasti interiori, perché l’amore totalizzante rischia di condurre alla spersonalizzazione.
Questo desiderio di congiunzione diviene allora inquietudine, il sogno incubo, la fiaba tragedia. L’essere uno comporterebbe lo scioglimento del proprio io in favore del noi, un io che la poetessa difende con unghie sottili di pensiero, ma affilate come il verso. Proprio per questo l’amore narrato in questa raccolta, che la carne rende affascinante, assume tutte le caratteristiche di una lenta tortura, di un dolore indicibile.
E allora quel “tu” della quartina “Tu mi guardi / di cruda bellezza / come un sole smeraldo / sui greti” (da Per ombre e fuoco) può anche mutarsi in un buio feroce, talvolta in un semplice accettare l’amore come un dono reciproco di salvezza dolorosa (come in Dove ritorna la mia storia: “mani rapaci – quasi crudeli, / per salvarmi - / afferrano i fianchi / sfrontata allento la presa / e mi lascio (s)finire”); (come anche, in E’ solo questione di… : “Curvami all’indietro / e risalimi / come un destino gelido / che rovina dentro il fuoco”), talvolta accusando l’altro di prepotenza, di possesso (come in Sangue (blu): “avvelenato dal male / e da quel dio dannato / che benedici / di avermi creata // così // per te”); (o ancora, in Fuggevole: “mi faccio piccola // perché tu abbia ora paura / a smarrirmi // perché quando entravi tutto / nel mio ventre / ti era difficile immaginarmi / altrove”).
E’ come se l’amore rendesse dipendente solo il “tu”, che diviene amante eppure anche nemico, affine eppure anche opposto.
Tutto questo è sintetizzato in un succo amaro di pochi versi, all’inizio della lirica La costola di Adamo, che fin dal titolo spiega bene il rapporto di dipendenza/indipendenza tra uomo e donna, tra amante e amata: “Io ti piango dentro il fianco / l’amore, che scava un punto / dove potermi ritrovare / sola”.
Infinite altre riflessioni serpeggiano eleganti tra le parole di Sylvia: riflessioni poetiche, metafisiche (alle quali conduce il corpo stesso poiché l’uomo è concepito come un’entità unica ed indivisibile), esistenziali, filosofiche. Tutto è ricucito dal filo rosso dell’amore, poiché componente fondamentale e imprescindibile, naturale e imposta.
La poesia di Sylvia è una nuvola di sogno che prende una forma che pare indelebile per andare a disfarsi sull’azzurro del cielo, un tentativo di connubio tra concreto e astratto, metafisico e corporeo.
Una prima raccolta che lascia la carne senza il suo fiato, per poi rianimarla, come in un eterno tentativo di medicazione.

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