mercoledì 2 febbraio 2011

Dante, passato e presente

di Massimo Sannelli (Castelvetrano, 13 dicembre 2010)

Non. Amo io. La contemporanea. Italiana letteratura. io. Non amo. La contemporanea. Italiana. Poesia. Io amo solo. Dante e. Dio Onnipotente. Padre.
(Isabella Santacroce, 23 novembre 2006)

Che cosa è il «passato»? Parliamo del «passato» rispetto a Dante[1], e non rispetto a noi. Noi parliamo secondo il nostro empirismo – la nostra cultura e la nostra esperienza, il poco che abbiamo letto – in attesa di vedere, senza possederla, la precisione invasata di un Dante troppo empirico per essere umile.

In realtà, e parlando spietatamente, Dante non ha un grande passato alle spalle, da una parte del suo punto di vista letterario. Se guarda al mondo che ha parlato e parla latino, ha 1400 anni di letteratura magistrale alle spalle; in volgare no, perché la Vita nova – opera giovanile e «manuale di poesia», secondo Sanguineti – dichiara che il primo a scrivere poesia non in latino lo fece per farsi capire da una donna non letterata; e che si scrive in volgare da non più di 150 anni. Così Dante ha davanti a sé due tradizioni: una è antica, parla in una lingua che il popolo non parla più, e ha generato libri e libri; l’altra è recentissima, parla nella lingua del popolo, e non ha ancora generato un magistero notevole.

E il presente: che cosa è? Prima di tutto: il presente siamo noi. Se siamo noi, anno 2011 dopo Cristo, significa che il presente è vecchio, perché viene dopo tutto. Rispetto al nostro presente, la scrittura di Dante ha un ruolo superiore e speciale: lo costruisce ex abrupto, perché è il primo grande poema in italiano, la prima opera complessa della poesia italiana, la prima opera di successo non municipale e non regionale, in Italia. Ecco: Dante è un uomo giovane all’interno di una letteratura giovane. Sottolineo la gioventù di Dante perché il nome dell’uomo nuovo di un poema allegorico – ma in latino – diffusissimo come l’Anticlaudianus di Alano di Lille è Iuvenis[2]: il giovane assoluto, il modello delle virtù, che sconfigge tutti i vizi. Mettere insieme i canti IV e V – in fondo sono già insieme, contigui non casualmente – è interessante, soprattutto perché questo intervento è più un seminario che una lezione: quindi cerco di proporre degli spunti utili, una specie di modello per riformulare quello che si sa.

Dante incontra i poeti del passato: a dire il vero è un passato selezionatissimo, un solo greco (Omero) e quattro latini (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano). Dante è il sesto, e tra i sei poeti avviene un dialogo che «il tacere è bello» (questa omissione delle parole tra poeti può avere molti significati: forse l’argomento è lo stesso Dante, o la sua elezione, o la letteratura contemporaneo). Il passato letterario è oggetto di una selezione innaturale e feroce: solo cinque poeti; il presente è una selezione anche più feroce, perché in pratica non esiste: un solo poeta, cioè Dante. Nessun poeta della latinità medievale, nessun provenzale (Bertran de Born e Arnaut Daniel appaiono come dannati, nell’Inferno e nel Purgatorio; Folchetto di Marsiglia appare solo come santo, nel Paradiso, non come poeta); nessun italiano (Brunetto, Bonagiunta e Guinizelli sono figure municipali, in vita; figure della dannazione, transitoria o perpetua, in morte). Tutto il passato letterario si riduce a una figura a cinque lati, in cui Dante è il sesto.

I cinque grandi del passato sono dotati di senno e sono chiamati anche savi: in realtà la loro competenza sembra più intellettuale e filosofica che artistica in senso stretto. Sono saggi e intelligenti, ma la loro espressione non è né triste né lieta: il Limbo è uno stato di desiderio inappagato, come una castità forzata o un’ospedalizzazione non voluta; il Limbo è anaffettivo, perché Dio è assente – quindi è un luogo senza un culmine sentimentale. La mia ipotesi è che Dante stia facendo due cose: prima di tutto, si colloca come degno erede del passato, e questo è ovvio; in secondo luogo, vuole dire che tra i poeti del passato e lui stesso c’è una differenza abissale. Si tratta di un nodo, come si dirà nel Purgatorio.

Dante è poeta perché è ispirato da Amore, e Amore si identifica con Dio (nella prima fase dell’esperienza poetica di Dante non è così: Amore è un sentimento, personificato in una specie di dio-demone profano; ora, nella maturità che si addice ad un uomo di 35 anni, Amore e Dio si identificano, come sarà chiaro nell’ultimo verso dell’intera Comedìa). Ma i poeti del passato hanno subìto un’ispirazione diversa: non era Amore ad ispirarli – piuttosto le Muse o Apollo, ma erano «dèi falsi e bugiardi», e Virgilio lo dice appena si presenta a Dante; l’Amore degli antichi era un dio alato, falso e bugiardo; e Dante si dichiara totalmente seguace di Amore, nel canto XXVI del Purgatorio: Amore spira, cioè soffia santamente un dettato; Dante nota, cioè – altra grandiosa ambiguità – scrive e vola. Senza questa ispirazione teologica non c’è poesia nuova – cioè il presente, che Dante incarna; c’è il senno dei savi, altissimo e rispettabile – ma si tratta del passato. E chi non scrive secondo questa forza di amore – come Bonagiunta e Giacomo da Lentini, nel passato recente di Dante – è come un morto in vita, come uno che si sforzi di tenere in vita degli «dèi falsi e bugiardi».

Dante non ha semplicemente una vocazione: una vocazione ce l’hanno tutti, più o meno. Dante si convince di essere una vocazione, cioè di essere un destino generale: come l’ultimo Nietzsche in Ecce homo, quando si chiede «perché sono un destino» e «perché scrivo libri così buoni». I contemporanei sono effetti del destino, scritto nel passato.


Note

[1] Questi appunti scritti dopo il discorso hanno bisogno di riferirsi all’edizione della Comedìa di Dante Alighieri, a cura di chi scrive (Fara, Rimini 2010) e ad un testo ancora meno accademico: Salvezza in Dante, salvezza di Dante, in AA.VV., Salvezza e impegno, a c. di A. Ramberti,  (Fara, Rimini 2010, pp. 358-360). Queste pagine potrebbero essere incluse in Salvezza in Dante, nel futuro.

[2] Cfr. l’edizione dell’Anticlaudianus, a cura di chi scrive (La Finestra, Lavis 2004): in particolare le pp. 7-8, sul coinvolgimento del lettore.

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