domenica 21 novembre 2010

Su Novembre di Domenico Cipriano


Transeuropa Edizioni, 2010

recensione di Vincenzo D'Alessio



Ha visto la luce, nella Collana “INAUDITA” dell’editrice Transeuropa di Massa, la raccolta poetica Novembre del poeta irpino Domenico Cipriano. Ventitré “stanze” poetiche, composte da sette versi ognuna (eptastiche), coordinate dall’energia comune: “ispirate dal tragico terremoto del 23 novembre 1980 in Irpinia” (pag. 37).
Così scrive l’Autore nella nota posta a fine raccolta. Un’esperienza vissuta a soli dieci anni. Riportata, oggi, con l’ausilio dei numeri: “Per ricordare diventano ossessivi i numeri. Ecco allora la sequenza di 23 poesie come la data del sisma, tutte composte da “stanze” di 7 versi (poesie eptastiche) e un prologo di 34: l’ora serale che spaccò l’Italia: 7,34. Ciò accadde un novembre lontano ma sempre presente, da cui il titolo e l’introduzione di 11 versi (il numero corrispondente al mese di novembre)” (pag. 37).
Chiarita questa prima parte che sembra cabalistica, la poesia vera di Cipriano riprende il ruolo che ha sempre dichiarato partendo dal suo esordio compositivo:

Sulle mie montagne
c’è il mare.
Lo guardo appoggiando
l’ombra a un palo.
Sempre tempestoso
riflette gli animi
di questa gente.
(da Il continente perso, Fermenti Editrice, 2000)

Ritorna prepotente la radice della terra a farsi elemento del continente che nel Nostro vive ed emerge dalle continue lotte umane. Anche per il terremoto dell’80 i suoi versi sono rastremati, da faber musicale, scheggiando il pentagramma con pause e diesis, tenendo a freno quell’ “ira della notte” che è in noi, poeti incompresi dalla dinamica del potere territoriale: “ti guardo con occhi / diversi parola risorta / ogni notte udendo / la voce degli uomini / senza più voce, lontani / sfuggiti dai luoghi” (pag. 11).
Novembre è la memoria che ritorna e si fa “credo” anche senza vedere. Volontà imprescindibile di bene verso una umanità provata, distrutta, trasfigurata, che però si consola facilmente nei superstiti: “la vera disgrazia è per chi non c’è / per chi ha perso gli affetti nella notte / quando la luna velava la consolazione. / Gli altri si adattano a resistere e continuare / (…) sui racconti prevale / l’invito ad arricchirsi come senso della vita” (pag. 29). Quanto abbiamo pagato questa verità. Quanto abbiamo speso del nostro passato, cancellato dalle ruspe della ricostruzione, senza più riaverlo se non nelle immagini che sbiadiranno. La poesia resterà. Sì, ma per pochi. Il labirinto osceno della politica tenta, in ogni modo, di nascondere le sue colpe: il monito dei morti, di tutti i terremoti accaduti, è la memoria perpetua e la richiesta di Giustizia. I vivi hanno pagato quanto i morti: chi si è opposto alla ricostruzione malfamata, ha pagato con minacce e privazioni, qualcuno ha perso i famigliari che non erano morti con il terremoto.
I poeti sono occhi, come scriveva Alfonso Gatto ne La forza degli occhi (Mondadori, 1967), guidati da quel demone giovanile che li investe di una identità che si rivela “spietata innocenza”. Così fa Cipriano quando descrive sé stesso: “(…) chiedi a me che ho occhi / di bambino e ascolto – non credo / che la terra solo abbia inghiottito tutto / se il sangue a fiotti bagna sopra questi lutti” (pag. 25). Di fronte alla gravità dell’evento, il bambino-adolescente, in cui arde la fiamma della vera poesia, oggi uomo, tenta una ragione alla forza naturale e alla brutalità del genere umano.
Questa è l’anima della raccolta poetica Novembre del Nostro. Ricca di metafore, di assonanze (vedi pag. 12), allitterazioni (pag.15), enjambement (sparsi in tutte le stanze della raccolta), permeata delle radici vere, da Scotellaro a Sinisgalli, riportanti i grumi dell’emigrazione, mai finita, di uomini nelle Americhe, nell’Europa: “(…) delle spalle dolorose dei nuovi genitori / che tornano ad agosto, delle case nuove / e vuote” (pag. 33). La raccolta è carica di tutti i valori della terra del Sud. Tanto articolati nelle parole che anche il nostro dialetto compie la sua parte: “(…) cercavo di costruire già le case / con le graste dure delle tegole  :iniziavo” (pag. 18). La voce vera del “verbo” creare, si manifesta proprio in queste prese di memoria. Dove la “grasta” è il residuo della tegola, ma anche il reperto antico che lega al passato e che viene rimesso nell’impasto delle nuove case per propiziarsi il futuro.
Non credo che questi versi possono avvicinarsi ad una realtà espressionista dove i sentimenti deformano, fino alla più violenta esasperazione, i dati del reale. Invece li sento più vicini ai dati offerti dal critico letterario Luigi Reina: “C’è come una sospensione, un’atmosfera d’attesa neppure controversa nella poesia italiana di fine millennio: scaturisce dalla disillusione seguita agli ideologismi e dalla saturazione degli interessi avanguardistici e sperimentali. E c’è una tensione nuova verso un recupero della storicità dell’esperienza, anche nella sua valenza diacronica” (Lo specchio di Narciso, Fabio Croce Editore, 2002, pag. 167).
Domenico Cipriano, anche di fronte a quest’evento doloroso, legato alla sua migliore età, ha saputo confortare il viaggio transumante dalla civiltà contadina, che anche per il Nostro ha segnato momenti di calore, sostegno morale, purezza nella scrittura, con la caduta verticale e l’affermazione violenta dell’industrializzazione della terra che per noi poeti è: “(è) un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa” (pag. 12). La terra è nemica?

Montoro, novembre 2010

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