Morlacchi editore, Perugia, 2010
recensione di Caterina Camporesi
L’ottava raccolta poetica, A che titolo, di Brunella Bruschi, poetessa di spessore e donna di cultura di riconosciuto valore, ha vinto il premio speciale della Giuria del Premio nazionale “Tra Secchia e Panaro” 2010.
Il volume è composto di sei sezioni: “Cronaca”, “Il navigatore”, “Connessione non eseguita”, “Senza vessillo”, “Contrassegno”, “A che titolo”.
Ognuna è preceduta da eserghi che ne anticipano e ne condensano la tematica.
Obolo, il testo che apre “Cronaca”, la prima sezione della raccolta, è seguito da altri il cui spunto è suggerito dagli episodi di violenza avvenuti in questi ultimi anni. Essi offrono l’occasione per riflettere sull’ineluttabilità della presenza del male, ogni giorno dilagante in tutti gli ambiti del vivere umano, famiglia, scuola, stadio, strade, lavoro.
La duplicità della natura dell’uomo e del mondo esige come obolo un sistematico versamento di sangue. Il tema presente in questa prima composizione riecheggia anche in A che titolo, testo eponimo della raccolta.
Così la poesia si può trovare ad esercitare la funzione di riparazione nei confronti delle conseguenze generate dal male ed essere l’obolo da versare come ringraziamento per il fatto di essere ancora in vita.
Essa si concretizza nel costante sforzo di ricercare “(…) parole giuste / per ogni cosa”, essendo essa per eccellenza l’attività più idonea a scandagliare la vita nei suoi aspetti più nascosti: “La poesia cerca una chiave di violino / nasce nella metamorfosi / benché rimanga impronunciabile la vita”.
La struttura della raccolta, a me pare, richiama l’architettura di una città, con zone più recenti, post-moderne e moderne (le prime tre sezioni) e altre più datate e stratificate che incorporano memorie antiche e aiutano a comprendere passato e presente.
La memoria, come afferma E. White, “è generosa: ti permette di creare una dimensione che la realtà aveva attraversato distrattamente”.
L'eventuale flaneur che, volesse indugiare lungo le sue strade e frugare nei suoi vicoli e muoversi nelle sue piazze avrebbe la possibilità di cogliere all’unisono echi del passato, brulichii del qui e ora e filiformi lampi visionari adombranti possibili scenari del tempo che verrà.
L'ipotetico lettore futuro, poi, che volesse soffermarsi su queste pagine avrà il privilegio di ritrovare tutti i segni attendibili dei vantaggi, ma anche degli affanni, delle incongruenze e delle perplessità, che la tèchne ha donato all’uomo del terzo millennio, rendendo praticabili contatti e comunicazioni, prima d'allora impensabili, anche se la contraparte è stata la compromissione del procedere lineare del tempo e del processo storico.
Vivere e condividere questa nuova realtà, dove non c’è più odore e corposità, a volte fa rimpiangere le obsolete modalità dell’inoffensiva idea di un pennino, o quella di ricevere lettere da una postina piena di carte che è lì a tampinarci, o di scovare strade con vicoli ciechi e percorsi da indagare nella precarietà, o ancora quella di recuperare ideali in gioiosa utopia.
Nel quotidiano duello corpo a corpo con la moderna tecnologia, il monitor e qualsiasi altro oggetto similare possono assumere sembianze del tutto antropomorfiche con il corrispondente potere di scatenare gesti reattivi di ribellione comuni fra gli esseri umani.
Se la prima parte, senza nulla togliere alla complessità e alla perspicacia del pensiero dell'autrice, è caratterizzata dall’ironia acuta o “metafisica”, come meglio la definisce nella seconda di copertina Fabrizio Angeli, la seconda parte mostra con più evidenza la realtà della condizione umana, come la malattia, la guerra, gli stermini, la vecchiaia, la morte, i luoghi, la pietas.
Memorie antiche, luoghi e dialoghi immaginari con poeti, pittori, pensatori e artisti amati si affacciano e affollano la scena: tutto è teso a catturare la verità da scovare nella relazione dialettica tra la profondità stessa e chi la scava: “Sapere fare vedere / e sapere vedere sotto l’epidermide / è la dialettica / tra il corpo aperto / e il chirurgo che lo apre.”
Nell’avviarmi verso la fine di questo corposo e impegnativo libro, non posso non citare alcune considerazioni della prefatrice, Giusi Checcaglini, che riesce meglio di me a dire quello che penso: “La poesia vera è quella che smaterializza la vita, materializzandola in ritmo, suoni e immagini di luoghi e tempi della coscienza alle prese con il mistero del dolore e dell’amore”. E ancora, per quanto riguarda la forma, “essa è classicamente lavorata non per rappresentare ma per creare un altrove che consola e riscatta”.
Nel caso di Brunella Bruschi tale forma si avvale di “costruzioni a volte ardite, a volte classicheggianti, a volte epigrammatiche, a volte snodate come poemetti”.
Quello che è certo è che dopo avere attraversato questo libro, non potrò fare a meno di ritornare spesso fra le sue pagine per assaporare lettura dopo la lettura tutta la profondità di vita e di emozione e di pensiero che esso contiene, così armoniosamente amalgamata nell’aggraziata ed elegante ossatura della sua architettura.
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