recensione di Caterina Camporesi
Nella pregevole ed accattivante raccolta poetica di Stefano Bianchi, Sputami a mare, si possono, a mio parere, senza minare la evidente continuità ed unitarietà dell'opera, individuare tre fasi alle quali corrispondono specifici atteggiamenti e comportamenti rispetto all'azzardo del vivere. Conseguentemente anche i toni si diversificano, sintonizzandosi di volta in volta con i differenti risvolti emergenti dai testi.
La prima parte, quella più breve, si caratterizza per il tono pensoso di fronte a decisioni da prendere comunque insoddisfacenti se non impossibili poiché sembra mancare il varco per l'entrata nel mondo: «E già so che qualunque sia / la scelta / mi lascerà solo // ma libero no / come non si può tornare bambini.»
La seconda parte, che inizia con la nona poesia dal titolo Tasca bucata, dove a fine testo fanno la loro comparsa le voci, si caratterizza invece per un tono più concreto: le perplessità si sciolgono e sia l'io soggettivo che quello poetico si fanno carico di scelte e responsabilità, specie per quanto riguarda la presa in carico e la cura dei propri tesori.
Le voci, riecheggiano la presenza di un humus relazionale famigliare e, nel loro ripetersi, accompagnano con una premura amorevole e protettiva il cammino nel mondo del fuori.
Si respira un'aria più leggera e il soggetto si sente pronto a compiere il primo decisivo passo per entrare nel flusso della vita, accettandone i rischi e gli inevitabili smacchi: «solo il partire conta», per vivere le esperienze: «Forse tutto è nella corsa / lontano l'approdo / troppo / non perderci un giorno / a pensarlo.»
La terza fase è introdotta dal stupendo testo Al vousi di Nino Pedretti e conduce il lettore in un'atmosfera colma di mistero dentro la quale echeggiano le voci perdute.
Si fanno i conti con la mancanza, con il rimpianto, con il bisogno di recuperare parole e insegnamenti dati da chi ora non è più. Solo i ricordi sono rimasti a consolare il vuoto.
Anche in questa nuova opera, come nelle precedenti – La bottiglia (Edizioni Pendagron, 2005) e Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d'inverno (Fara Editore, 2007) non manca l'elemento che caratterizza la poesia di Stefano Bianchi, vale a dire, quella sana e sagace ironia che rende la lettura dei suoi testi quanto mai godibile.
Se si aggiunge, poi, che egli con i suoi versi è come allestisse delle rappresentazioni teatrali, non meraviglia se il lettore si lascia sollecitare e coinvolgere tutti sensi, in particolare quello della vista.
Continuamente l'autore chiama in causa l'altro attraverso il tu che, oltre ad essere l'esteriorizzazione di una sua parte interiore è soprattutto un invito, se non addirittura una richiesta, a partecipare e a condividere dubbi, stupori, nostalgie, speranze, coraggio, rischio, fatica, dolore e quanto altro pertinente all' umano.
Quel tu, così perennemente interpellato, aiuta a superare quel tutto che è niente, poiché la presenza di qualcuno, che sostiene ed incoraggia l'illusione della speranza, fa sì che si possa proseguire il cammino fra le perplessità e le insidie della vita.
Stupisce la grazia con la quale il poeta afferra contemporaneamente riuscita e fallimento con il mirabile ossimoro: «Dimmi sì fratello in bianco / che non è il solito abbaglio / che sono ancora in tempo / per ogni sbaglio».
Immenso e deciso è l'amore di Stefano nei confronti della natura e tenta in ogni modo di scuotere il torpore per invitare a cogliere la meraviglia del ritorno delle rondini che ad ogni nuova primavera si ripete come un rito: «Ci sono ancora rondini su questi cieli / le ho viste, non ci credi? / Ieri / c'eri / dove sciupavi gli occhi?»
Questo ultimo verso è ineguagliabile per bellezza e condensazione di senso: “sciupare gli occhi” rimanda allo spreco, alla disattenzione e all'ingratitudine presente in quel non sapere godere e meravigliarsi del miracolo della bellezza che ci sta di fronte.
L'incitamento vale anche per l'amore nel sua sfera più pertinente quando dichiara la sua «(…) voglia d'abbandono / alla piena del tuo fiume. Spazzami via, sputami a mare / come un ramo già caduto».
Correre il rischio: «Presto saprai chi sono / e non ti piacerà, / (…)», ma «il mare di presente» va vissuto «finalmente».
Il viaggio tra le pagine di questo libro, dove è stato bello sostare e perdersi lungo i sentieri conosciuti e sconosciuti del vivere, del pensare e del sentire accompagnati da rara sensibilità e intelligenza è giunto alla fine e di questo non si può che provare gratitudine per l'autore.
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