sabato 20 febbraio 2010

Su Sto consumando l'ultima casa di Franca Fabbri

recensione di Vincenzo D'Alessio


La raccolta poetica di Franca Fabbri che reca come titolo Sto consumando l’ultima casa è un tesoro prezioso agli occhi del lettore: restituisce l’immagine vera di una pietas et humanitas da troppo tempo assenti nella società contemporanea. L’umana memoria è debole; a volte gli uomini non vogliono ricordare i grandi dolori per non vedersi sfiorire quelle gioie, già poco durature, che l’esistenza offre. Sono poche le gioie, tante le sofferenze del quotidiano, perché lasciarsi prendere dal dolore?
C’è una epigrafe apposta sopra la lapide di un grande teologo e filosofo del XVI secolo: “UT MORIENS VIVERET VIXIT UT MORITURUS” nella Chiesa di San Domenico Soriano a Solofra (AV). Sembra questo il filo conduttore della tanatologica raccolta della Fabbri. Vestita d’ironia la nostra compagna di stanza non ci abbandona. Ci lascia l’unico scampo imprevedibile: restare nella memoria attraverso la parola poetica.
Illuminante, e insostituibile, è la prefazione di NardaFattori: “Franca Fabbri nutre i suoi versi di grande compassione e di umana pietas; pur attenendosi ad un registro quotidiano raggiunge le profondità del sentire”(pag. 9). E a pag. 11: “Ancora una volta ci trattengono su questa terra le cose note e amate, là dove si andrà si spera terra benedetta, il favore del cielo.”
Bastano queste semplici frasi per aprire la “stanza” dove dimorano gli spiriti cari alla Nostra poetessa.
Divisa in due sezioni, la plaquette poetica, ha nella prima parte riferimenti alla quotidianità, all’esecuzione dell’esistenza con tutti i suoi orpelli; le dolorose soste nei luoghi della sofferenza; l’immagine della Natura che si svela all’uomo quasi ignaro, oggi, degli eventi che nel bosco si rinnovano: “La pioggia lavava / tronchi, rami, rovi, / come si fa con i morti, / prima della sepoltura”(pag. 36). Chi conosce la Morte conosce le stanze della vita. Come molti grandi poeti la Nostra poetessa guarda dalla sua stanza la grandezza dello spettacolo naturale e la pochezza dell’essere umano: “Solo gli uomini / s’attardano / sotto il lenzuolo/ a prendere confidenza / con la morte” (pag. 37).
Più forti sono i registri dell’organo poetico utilizzati nella seconda parte della raccolta. Forti di vivida fragilità di fronte alla morte dei propri cari, delle immagini affioranti dalle foto come testimoni dei tempi buoni, dei tempi consumati, delle poche gioie che l’esistenza offre a chi un cuore porta veramente nel petto come seconda anima assetata di Umanità: “Nella mia vecchia casa / ho anche la stanzina dei morti”(pag. 53). L’accostamento alla poesia di Giovanni Pascoli è forte, realizzata appieno è l’immagine della purezza eterna di quel “fanciullino” che guarda stupito le meraviglie del Creato e del suo farsi giornaliero. Come pure la fiducia nella Fede e nella Poesia quali uniche armi per superare la ferocia del dolore tutto umano. Compaiono metafore e analogie. Accostamenti sintattici e assonanze. Ossimori e metonimie. Come nei versi della poesia a pag. 57 che sembrano riportare alla mente i versi della poesia L’Aquilone di Pascoli: “Non vedrò più gli occhi di mia madre / seguirmi ovunque andassi. / Non vedrò più il corrucciato viso / di mio padre, / carico d’anni, / non 'accettare' la morte.”
E il richiamo è anche nella stupenda immagine della poesia Ritornare dedicata al fratello quando riprende la scena sempre della poesia, citata, del Pascoli “ti pettinò co’ bei capelli a onda / tua madre… adagio, per non farti male”. E nei versi pag. 61: “È da allora / che mi stupiscono, / ad ogni primavera, / i fiori ritornati a sbocciare.”
Ricorrenti sono le anafore per accentuare il cammino che l’essere umano sembra scegliersi ma che in fondo è guidato verso l’ultima casa, quando ci si ravvede, dalla nostra compagna di stanza, che non ci ha mai lasciati da soli.
La poetica della Fabbri richiama la vita nella sua perfetta forma di dono, dei talenti offerti da fare fruttare, per essere riconsegnati alla Natura che li ha concessi a noi, per il nostro cammino, che si completa in quello degli altri. Credo che i versi più belli da utilizzare per concludere, momentaneamente, l’anabasi di questa raccolta possano essere presi in prestito, ancora, dal Pascoli: “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! D’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!”(X agosto)

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