sabato 27 febbraio 2010

Pasquale Martiniello (1928-2010), poeta nazionalirpino


Vincenzo D’Alessio

Quando scompare un poeta si vorrebbero dire tante cose. Si vorrebbe che il corpo, la voce del poeta restasse sempre in mezzo a noi e cantasse, cantasse, senza spegnersi. La Natura ferma ogni canto, anche quello sublime del poeta e allora nasce la memoria in quelli che lo hanno conosciuto e per quanti avranno l’esigenza di conoscerlo. Ho conosciuto il poeta Martiniello come preside del Liceo Classico di Vallata (AV) quando, dopo il terribile sisma del novembre 1980, giravamo l’Irpinia con il professore Antonio D’Urso (alias Rischiatutto) ed il suo editore Nunzio Menna di Avellino.
Da quell’incontro nacque la nostra collaborazione. Prima partecipò, ottenendo i migliori risultati al Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”. Poi divenne membro della Giuria dello stesso Premio e realizzammo, insieme, la bellissima Antologia dell’VIII Edizione del Premio, nel 1990. Ho continuato a frequentare la sua casa di Mirabella Eclano e i suoi famigliari.
Vorrei ricordare Martiniello, così come lo vidi attraverso i suoi versi, nell’agosto del 1997, in occasione di una presentazione, in suo favore, a Manocalzati (AV):

Nel contribuire all’incontro di questa sera tra poesia e musica, in questa realtà irpina di Manocalzati, intendiamo sfatare il luogo comune che incrina da qualche tempo le manifestazioni culturali. In primo luogo: la critica che viene realizzata per i lavori letterari sembra essere quasi sempre benevola e sostenitrice delle nuove voci poetiche. Ma la stessa critica è anche contestazione dei lavori sdolcinati, prosastici, impastoiati da brutte contaminazioni. Nell’affermare questo concetto ribadiamo, a coloro che accusano i critici di essere di parte, amichevoli, condizionati, che il lavoro critico rimane serio e sereno, improntato all’ufficialità del messaggio che testimonia l’impegno culturale di ciascuno autore. A questi accusatori prezzolati, che inquinano la Cultura dei nostri giorni, rivolgiamo l’invito a rileggere il Manifesto dei Poeti Irpini, promulgato nell’aprile di quest’anno e i cui effetti non tardano a farsi sentire.
In secondo luogo: intendiamo chiarire che la poesia è un veicolo potenziale di idee, non è utile per accumulare né gloria né denaro, soltanto, ed esplicitamente, ad unire più esseri umani che avvertono lo stesso sentire, il medesimo dolore, nella partecipazione all’esistenza tra gli uomini. Per i poeti che questa sera onorano il nostro incontro, chiediamo di fare a meno delle citazioni, poiché sono divenute un’arma contro le menti libere e genuine, quasi che si dovessero conoscere tutti e tutto il mondo poetico da Ovidio a Ramat, passando per i premi Nobel.
Il primo poeta a raccontarci la sua passione per l’Irpinia è Pasquale Martiniello, originario di Mirabella Eclano, dalla prima raccolta di versi intitolata Testimonianze Irpine  (Tipografia Irpina, Lioni,1976) per finire a quella dei I canti della memoria, Ibiskos Editrice,1995. I versi di Martiniello rivelano l’anima di un poeta-contadino, antica, perché intrisa di malanimo nel vivere presente, ribellandosi continuamente alle perverse ambizioni di una oligarchia di sciacalli che schiaccia il corso naturale delle vicende di un’intera provincia, la Nostra.
Ricordiamo che l’argomento scelto, questa sera, verte su «Irpinia:terra di memoria» e lo scopriremo attraverso le alterne interpretazioni che gli autori propongono nel corso della loro produzione poetica. Siamo convinti che, per un’analisi attenta e severa della poesia, si devono tenere in debito conto le origini letterarie dell’autore. La prima raccolta poetica di Martiniello reca il titolo di Testimonianze Irpine il che la dice lunga sul come, dove e quando il Nostro abbia scelto di scendere in campo e segnare il solco del proprio passaggio.
Il come è intuibile nella parola testimonianze: testimone, cioè, di una intera provincia, realtà, umanità, che nel poeta assommano ad una gerarchia di voci. Nel tempo (il quando), gli anni settanta, che segnavano un rapido passaggio tra avvenimenti lenti di un dopoguerra e l’incalzare della frenetica corsa al benessere materiale, cancellatore di sana moralità e princìpi di Fede. Martiniello, anche se aveva iniziato a scrivere in anni giovanili, pubblica in quel particolare momento, (il dove) in cui sente minacciate le antiche radici della memoria e racconta questo scontro nel modo più semplice, con il richiamo alla bellezza dell’Arcadia, come nei versi a pag. 5 della raccolta:
«Non cercate le nuvole tossiche e nere,
non mutate il nostro arcadico cielo
con i crateri fumanti delle ciminiere.
(…)
Dai tortuosi e malefici meandri, o dea Mefite,
irata agli audaci speculatori dite:
– È terra di Cerere, di Fauni e Ninfe : Uscite!» (da Testimonianze Irpine)
Nello scorrere questa prima raccolta di versi ci accorgiamo che le tematiche sono le stesse che si svilupperanno, a mano a mano, nel racconto bucolico del poeta Martiniello. Le figure retoriche, gli aforismi, gli ossimori, che si svelano nel corso della produzione poetica, le stesse concitate forme dialettali che vorrebbero prendere il sopravvento sulla lingua italiana, riscattando il mondo di voci interiori del poeta, prendono corpo e forma da questa prima raccolta come la terra, vera, sincera, serena, che alimenta ortiche e grano, allo stesso modo, senza che l’uomo intervenga. La passione, come pathos, profonda e metaforica, per troppo tempo arginata nei canoni dialettici della professione scolastica, trova finalmente sbocco nell’alveo del “fiume” interiore del poeta, paragonabile al fiume Calore che ha intriso l’infanzie ei giochi del Nostro.
La figura del padre, analogia della terra e del fiume rigeneratore, domina dalle pagine delle raccolte poetiche di Martiniello, come colui il quale ha svelato, per primo, i segreti antichi della terra e dell’uomo, creando nel poeta i legami tra storia passata e presente angosciante, legando il reale al mito, alle leggende, indebitando il Nostro nel riscatto intervenuto tra contadino e scrittore. Scrive a proposito nella prima raccolta, nella poesia Padre, a pag.7:
«Quel fanciullo, tuo paggio
nei campi, non più ti scioglie
o lega le ciabatte e gli scarponi
né ti porta a spalla, la sera
stanco, la zappa e la vanga,
che a veneranda età ancora onori.» (da Testimonianze Irpine)
scriverà, poi, sullo stesso tema nell’ultima raccolta, I canti della memoria (1995) a pag. 13:
«Tu padre, nel sereno divinavi
i temporali, le dissonanze.
Quando io svirgolavo dall’orbita
mi rincorrevi. Era tardivo lo scatto.
Bene mi stavi fuori rotta.
conclude dicendo:  (…) Ora che ritorno,
lo scanno di quercia è così (e forse più d’ allora)
in silenzio, fradicio di collera.»
Possiamo comprendere e condividere la collera che si sprigiona nel racconto poetico di Martiniello?
Supponiamo che sia possibile!
Il Nostro scrive per farsi leggere poiché all’uomo invia i suoi versi ed è testimone, come quarant’anni prima, del suo tempo. Non altro si potrà chiedere al poeta se non la coerenza dell’amore verso le radici della memoria, come si contrastano le differenti scelte di vita. Il filo conduttore del racconto di Martiniello si arricchisce di una sequenza molto bella riguardo alla descrizione che fa delle donne e dell’amore: un tema insolito, quello della donna, per la dimensione che aveva negli anni settanta, in un’ area, l’Irpinia, dove solo oggi si avvertono, lievi, i ruoli femminili.
A tale tema appartiene la poesia Donna del Sud,  dalla raccolta Verso il giudizio, Ferraro Editore, 1997, a pag. 19:
«(…)
tacite e dignitose,
incidono su pagine di sabbia
il diario degli stenti e le fatiche.
(…)
Sempre più ti scorgo sola,
donna del mio Sud, nell’ora spoglie,
che grida l’abbandono.»
A scapito di quella critica miserabile che vuole per forza scorgere nella poetica del Sud piagnistei e biasimo, questi versi dimostrano quanta dignità si scorge in chi ha scelto, e sceglie ancora oggi, di restare al Sud, nella propria terra, dove l’abbandono è stato massiccio, per un esodo in luoghi migliori, sfuggendo la dura legge che chi possiede ha sempre ragione. L’Irpinia, il Sud di ogni luogo, cantato da Martiniello, con versi bucolici, montaliani, moderni, è ancora in attesa dei cambiamenti come il nostro poeta scrive, a pag.45, della citata raccolta I canti della memoria:
«(…) Fiorivano orti di speranza e sentieri
di fuga. Scontavo penitenze non mie per radici
povere di terra. Il grosso secchio scendeva e saliva
a colpi di reni. Quante volte un Ave e un Pater
sputavo con veleno! Quando pensavo al fiume,
che dava il suo latte a padroni senza cuore.»
Anche per noi, purtroppo, quei padroni sono rimasti gli stessi. Padroni che non lasciano alla nostra terra, generosa di forze verdi, il giusto destino. Uniamoci civilmente, per offrire a chi resta, a chi parte, a chi lo desidera, un cammino nuovo di speranza.
agosto, 1997

Nessun commento: