lunedì 9 novembre 2009

Su Lattice di Andrea Garbin

recensione di Alberto Mori

Nell’iniziare a scrivere di Lattice è opportuno guidare brevemente uno scivolamento semantico della vocale verso una sostituzione e dunque leggere e pronunciare Lettice.


Questo modus, soccorre, poiché il libro di Garbin è disseminato di “letti” che hanno l’aderenza collosa del giaciglio e lenzuola sudate da trasmutazione frebbile.


Il simbolo viene progressivamente alchimizzato nelle procedure dei versi, i quali sono viaggi attraverso la possibilità/impossibilità di un corpo onirico fusionale ed allo stesso tempo generativo: in queste isole di dormiveglia,nelle quali si sdraiano i versi, il paesaggio da una circostanziata ed iniziale veglia di assenti, diviene quasi sacrificale.


“Come succhiare l’impasto della ossa / una vigna in sacrificio musicale / si interpone tra le mie narici”.


Il gioco dell’alterità irresoluta ed irrisolta verso l’io amoroso,sembra aprire e chiudere ferite fra spazio e corpo.L’altro viene tastato, compulsato, sentito nel fremito della carezza, ma anche impastato addentro, nelle proprie ossa.


Viene avvertito qualche bagliore orfico in disseminazione che ricorda “il delirio amoroso” alla Alda Merini, soprattutto nella poesia “Realizzazione”, dove il desiderio mancante è pensiero sfuggente che ritorna inafferrato.


È interessante notare anche come il poeta configuri in progressione una sorta di volto unanime che riassuma in sintesi le peregrinazioni oniriche, i paesaggi marini e la tensione esistenziale verso la libertà, fino a raggiungere una “emulsione senza vento”, sublimazione accennata di due esseri che si possono vedere solo in breve rifrazione.
Prima della sparizione reciproca.


Altrove invece “la tua pelle è perla di ghiaccio / che ricerca tra lenzuola di neve” la condensazione è stigma scultoreo.



La lotta interiore del poeta ha ascendenze che raggiungono nella poesia del ‘900 il “tumulto” del giovane R.M. Rilke, il quale ebbe la sua notte oscura,combattendo con i propri impulsi prima di donarsi alla poesia.



Dopo lo scivolamento semantico iniziale dunque è possibile ora sentire il saldo cammino di Lattice direzionato nell’intenzione di offrire una sorta di sapienzialità notturna, mostrando che ciascuno si corica in universi paralleli e la stessa parola lettura contiene la postura orizzontale del corpo che lascia all’occhio il cammino del verso.


Intanto, restiamo vani, anche con presagi dubbiosi, dopo aver afferrato le domande del libro.



Andrea Garbin con Lattice svela suggestioni variabili, ma soprattutto la nascita di una post identità che dimostra come la scrittura di poesia post moderna, si sia aperta un varco ad un sentimento di rinascita, in questi anni “della malattia che imita l’essenza”, come afferma lo stesso autore e che decantano con virtualità grafica d’immagine nello stesso fiore kitsch che ingromma sulla cover del libro donando evidenza percettiva alla materia compositiva stessa delle poesie.



Novembre 2009

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