lunedì 9 novembre 2009

Il cervo bianco: Francesco Giuntini, i colori dell’ombra

di Giovanna Fozzer


In un precedente studio sulla poesia di Francesco Giuntini accolto in «Ascetica e Mistica» (2002, n. 4) la ricerca si era incentrata sul divino presente nella sua poesia, che nella maggiore raccolta La fabbrica del tempo (del 2001) compariva dapprima come un dio pagano, ed era scritto con l’iniziale minuscola: un dio impersonale, appartenente al sostrato simbolico, filosofico, poetico del mito antico. Più spesso vi era nominato il fato, ovvero gli dei. Solo nella terza sezione dell’opera, La vicenda del sole e degli eventi minori, il nome di Dio comincia ad avere la maiuscola, senza che per questo diventi un nome ricorrente nelle poesie di questo finissimo autore, dalla spiritualità intensa e segreta. Dopo Istanbul  (1990) e Del paggio e della pietra (1991), opere da lui considerate poco più che quaderni d’esercizi, Giuntini è diventato autore ammirato delle fiorentine Edizioni Polistampa, ed oltre a La fabbrica del tempo (2001) e Il senso della misura (2006), vi ha ora pubblicato la raccolta dal suggestivo titolo I colori dell’ombra.
Se possibile, appare in essa ancora perfezionata la forma dell'endecasillabo, dalla musicalità perfetta, entro i componimenti che si possono dire sonetti (ma escludono la presenza della rima classica). Scriveva Giuliano Manacorda, nella motivazione del Premio Circe Sabaudia assegnato a Giuntini nel 2002, che il poeta fiorentino «adotta ad un livello sorprendente le strutture poetiche che per secoli hanno costituito la tradizione italiana. Egli adotta, con estrema sapienza e raffinato gusto, il nostro endecasillabo, le nostre terzine e quartine come forse nessuno oggi oserebbe, ama le rime e le assonanze, ma nonostante ciò è assoluta la credibilità attuale della sua arte, e il contatto immediato del lettore con le sue pagine». 
In questa sua recente silloge il poeta ha tradotto a fronte, in inglese, i testi, giungendo a risultati di cui è ammirevole la cura dell’accentazione e dell’andamento ritmico dei versi, ed altresì interessante e illuminante la reciprocità, e la diversità degli strumenti e dei risultati. Non di rado leggere l’inglese a fronte aiuta qui ad intendere l’italiano, sia per la più semplice e uniforme disposizione anglosassone della frase, sia per la fortissima tensione intellettuale sempre presente nella poesia italiana di Giuntini, che spesso lo rende un autore ‘difficile’, e che l’altra lingua talvolta scioglie.
La fabbrica del tempo (2001), la raccolta di maggior  mole costituita di tre sezioni principali, accoglie in Lancette la storia e le storie, a partire dal mito rappresentato dalle principali figure di Didone, che non ha dimenticato l’abbandono/ al canto di Afrodite, l’altro modo/ di battere del cuore, e di Penelope, nella quale forse il poeta più s’identifica: il mare aperto/ solcano vele immemori, protese/ in cerca di un miraggio, di un mattino./ Non chiedere al tormento delle spume/ le ragioni del fato, non violarne/ il mistero. Oppure: Un battito del tempo ancora vive/ e chi lo perde resta un po’ più solo./ L’ombra di dio talvolta si distende/ sopra il silenzio sopra l’aspra quiete. Mentre vi rispecchia la propria vicenda, il poeta ambienta le due grandi figure in vasti orizzonti  marini, venti e spume, e le rappresenta come anime-mito del viaggio per  mare, metafora perenne del vivere e del morire.
Nella seconda sezione, La catena dei giorni , è scandita dalle stagioni della natura, dell’uomo, della storia, la serie dei minimi fatti umani di un anno o della vita, ed ogni componimento porta anche una data. Nella terza, La vicenda del sole e degli eventi minori (Notte, Mattino, Pomeriggio, Sera, Notte), scorrono eventi contenuti entro le ventiquattro ore di un solo giorno, ed ogni sonetto porta l’indicazione dell’ora.
Erano questi i libri che Giuntini aveva dedicato al grande tema del tempo: concluso questo percorso, finito il tempo, liberate dal tempo le persone, presenze delle raccolte precedenti, rimaneva da esplorare lo spazio, spazio a cui sono i sensi a dare figura (Gioco la mia partita con lo spazio/ figurato dai sensi). Spazi si aprono in un angolo infinito che non ha vicenda; e cento altre dimensioni sarebbero ipotizzabili, che i sensi non bastano a cogliere. Tutta la raccolta Il senso della misura (2006) è come sospesa in qualcosa che non si può datare, rappresenta sostanzialmente un’avventura fuori del tempo, nessuna vicenda vi si conclude, c’è soltanto un dopo. Ma attraverso gli spazi, forte si avventura la mente e la ricerca (e la preghiera) del poeta, come in Zuben Elgenubi:
Vedo tempesta sulla superficie,
fiamme dalla tua sagoma levarsi
in tormento di forme, vedo come
attorno a te non si dia pace il fuoco.

Quanto profondo è il corpo che l’incendio
avvolge, quanto nera s’inabissa
la voragine, ove forse si nasconde
per ogni stella un’anima. Se ascolti,

dimmi chi sei, chi tace ove risplende
un punto dello spazio. Una domanda
vaga in cerca di Dio, forse altre mille

la inseguono. Chi sono, a che tormento
infinito di forme invano assisto,
                                             ripeterebbe, se non fosse muta.

Ricerca e tesa meditazione, che continua ad esempio nella composizione intitolata Il non essere:  Il non essere è un luogo, o una leggenda. […] Il non essere è un dubbio, la memoria/di un tempo che non sai. Resta al di sotto/ del piano dell’esprimere, si muove// nell’ombra tuttavia, ti rende inquieto./ Il non essere è un’anima sottile/ fuori e dentro di te, cifra e destino. Nella successiva, dal titolo Antares, il poeta chiude sulla parola ‘preghiera’:

                          Di rado avverto
uno sguardo di Dio fissarmi, fino

a decifrare il senso della luce,
rassegnata obbedienza all’entropia,
vana gloria di sé, grido, preghiera.

Molti straordinari, intensi componimenti della seconda parte de Il senso della misura sono intitolati a corpi celesti, Vega, Venere, Giove, Spica, Castore, Polluce e molti altri ancora, i cui caratteri porgono spunti di simbolo alla complessa vicenda interiore del poeta. Citiamo ancora quello conclusivo, Anni luce:

Vederti come sei, non mi consente
la distanza. Le immagini di allora,
che passano da qui, sono e non sono
segno certo di te, lampi di storia

o cifra di una frase che trascorre
incompresa all’origine, sepolta
nel sempre troppo tardi. Rivederti
com’essere potrai, non mi consenta

la sorte. Un’immagine di allora
si stempera più presto nel notturno
illuderci del cielo, dispiegare

un sé che non c’è più. Spazia il presente
nello sguardo di Dio, le creature
soccorre la lentezza della luce.


Nella raccolta I colori dell’ombra, uscita nel 2009, il poeta ritorna sulla terra, e sono fatti e cose del mondo intero che volta a volta richiamano la sua attenzione, il suo ascolto. Con acume e vibrante partecipazione, il poeta registra il presente intorno a sé, e il presente è quello politico, storico, ed anche scientifico, stante anche la sua primaria formazione. Alcuni titoli: Virus, La striscia di Gaza 2005, Tolleranza zero, Da Guantanamo Bay, Carbonio biossido, Al Qaeda, Kabul, Neutrini, Impatto zero, Testamento biologico. Di tutto quanto accade intorno a lui il poeta ascolta l’eco, che intreccia più o meno segretamente alla propria vicenda umana: forse meno segretamente di quanto non accadesse nelle opere precedenti. Desta grande ammirazione la sicurezza, la naturalezza con cui i fatti, la vicenda e il silenzioso commento del poeta vengono accolti e resi presenti nella breve misura dei 14 versi, e senza che egli, come talora accadeva ne La fabbrica del tempo, ricorra alle triadi di sonetti. Leggiamo Shuttle:

È breve il volo, lunga la distanza
percorsa dal pensiero e la parete
di tutti i sogni è fragile, può infrangersi
nell’urto contro il tempo, in mezzo al vuoto.

Chi sulla terra è inquieto e tenta il viaggio
non sopravvive che per poco fuori
dal cerchio del destino, eppure prova a
guardare la vita da lontano

come fanno dal cielo solo i morti
e gli angeli. Si è aperta una ferita
lungo lo scudo e l’uomo si dà cura

di proteggere il sogno in cui galleggia
il pensiero. La strada del ritorno
ha il colore del fuoco, è densa e brucia.


È caratteristico della scrittura di Giuntini questo doppio velo entro cui le cose sono viste: le cose hanno ferite, i percorsi dei corpi lanciati nello spazio hanno un colore; il pensiero percorre distanze, i sogni hanno pareti fragili. Il sonetto si chiude sul fuoco, uno dei temi ricorrenti del poeta,. ma particolarmente presente nei componimenti de Il senso della misura, dove negli spazi siderali ruotano pianeti e migrano costellazioni e comete (e abbiamo veduto sopra, ad esempio, Zuben Elgenubi). Il tema ritorna frequente anche altrove: tanto più in quanto riferibile all’uomo, a qualsiasi manifestazione dell’anima: ardere anche come ardore, desiderio, tormento. Nella maggiore raccolta La fabbrica del tempo gli esempi da citare sarebbero molti, e d’intensità mirabile; la triade delle nostalgie (pp.171-172) si chiude con La nostalgia del fuoco. A p.115 è presente Il fuoco acceso, sotto la data 11 novembre: forse era già scritto// che stesse a me tenere i Lari desti/ e il fuoco acceso e lucida la pietra/quando il buio dilaga e il giorno arretra.
A proposito degli strati, dei veli in cui si manifesta e si cela la vicenda interiore del poeta, ha scritto, per «i testi di Giuntini così delicati e complessi e sapienti», Margherita Pieracci Harwell (in «Città di Vita» 56/4, 2001): «Della poesia come della vita, ciò che si capisce di più ad ogni svolta successiva, cioè ad ogni rilettura, non somiglia tanto alla mise en place di un altro pezzo del puzzle, che porti infine a vedere l’insieme; somiglia piuttosto alla scoperta, nella dimensione dello spessore, di un altro strato geologico che certo arricchisce la visione ma non ne elide il segreto».
A farsi specchio dell’inquietudine umana – ha scritto per I colori dell’ombra Sandra Di Vito (in «Feeria» 35, giugno 2009, pp. 70-71)  – è, in modo del tutto originale, la materia disanimata: e indica un esempio di ciò nel sonetto Dietro Google. Il mondo virtuale di Google è colto dal dubbio che dietro il labirinto una logica esista (Il labirinto crede// o no nella costanza del principio/che una logica esista, che l’omega/ sia implicito nell’alfa. Giace il filo,/ incerto se il suo segno sia rimasto/ ininterrotto ed unico. Lo inquieta/ la traccia che non sa, o che punta altrove).       
Un esempio toccante dello sdoppiarsi, della trasparenza dei due piani espressivi sovrapposti, è in Subprime: è il mutuo di poca affidabilità a parlare, personificato in una creatura (del cui poco peso si dolgono i genitori): Vivo sotto la norma. Fin da piccolo/ho imparato a combattere […]. Resto sul bordo/ di un’esistenza fragile, fortuna/e cromosomi segnano i destini/ma ho continuato a credere, ho cercato// nella città degli uomini una casa/ nel tempo una ragione. Sopravvivo/a dispetto dei numeri, fatico// a rendere alla vita tutto quello/ che si  chiede anche a me, restituire/qualcosa in più di quanto ho ricevuto.
Quasi ogni pagina, in questa raccolta, è nata da un’immagine, e si potrebbe dire che ogni sonetto è uno scatto, una foto, ma quello che l’immagine “ditta dentro” si condensa in un percorso d’anima, la riflessione è a specchio con la metafora, immagine di sé. E la compassione è talora delle cose per l’uomo, più che dell’uomo per le cose: Sul delta del Niger è un canto sussurrato, la terra è verde per le molte vene d’acqua che la percorrono, ma altre vene, profonde più del tempo, trattengono il colore nero. Sono i colori del petrolio e del denaro [ancora protagonista la materia inanimata]  ad essere messi a confronto dalla memoria degli uomini, e sempre scuro resta il colore del fucile in mano all’uomo. È silenzio sulle barche che passano sul fiume: La memoria/ tiene assieme i colori mentre l’acqua/ si richiude e dimentica il dolore.
Una qualità peculiare della compassione ci sembra quella ad esempio accolta nel sonetto Cinture chimiche: quasi il portatore della cintura, destinato alla morte, fosse in colloquio con se stesso, si sdoppiasse, con una sorta di ferma pietosa impassibilità: sono e non sono, in cerca del nemico/ osservo dal di fuori il mio cammino.// Giungono voci, passano persone,/ l’orologio lavora senza fretta,/ trasporto un volto, nella mia persona// sono e non sono, osservo. Ascolto voci,/ troppe lingue diverse da capire,/ ma è troppo tardi. In folgore, scoloro.
 Nella brevità della composizione, nel rigore dell’endecasillabo (o: negli strumenti mentali del poeta) trova spazio una forza espressiva di lacerante efficacia, e immensa sentiamo la sua taciuta compassione, il suo dolore per il dolore del mondo, di cui questo libro accoglie tanti aspetti, tremendi ma dal poeta toccati con levità, quasi in contemplativo silenzio.
Una sorta di meditazione sul lògos è contenuta in Credo quia absurdum, che traccia un quadro della dolorosa difficoltà di comunicare, del silenzio che risponde a colui che prega (o comunque si rivolge) e vede lunghissima davanti a sé la strada del capire. È nella sorte/ di chi sosta nel tempo e muore adagio, ossia degli esseri viventi, lasciare/ l’indicibile fuori dal confine/ del senso percepito. La seconda parte del componimento dilata lo smarrimento dal dolore della creatura a quello insito nella condizione dell’intero creato, della materia stessa, di cui viene fatto simbolo il sangue:
Il sangue ha una struttura come il mare,
fatta di tante gocce, di silenzi
e di scrosci gettati come grida.

Resiste la materia in varie forme
riscrive gli alfabeti della vita.
La logica in principio, ovunque, altrove.

Talora si sono fatti meno tortuosi i labirinti di segretezza, il rigoroso nascondimento delle precedenti raccolte giuntiniane: così ad esempio nel Cervo bianco, che spiccando sopra il dorso/ della montagna, va fuggendo da ogni sguardo di sorpresa, in pena per non potersi nascondere nel blu, nel verde acceso. E così il cervo si duole, nella chiusa del sonetto:
Cerco un campo di neve, voglio perdermi
nel colore indistinto della luce,
voglio una terra bianca dove correre

lontano dagli sguardi, ignoto al cielo
o attendere paziente, e potrei anche
dimenticare il tempo della fuga.   

Celare la propria storia in un velo di segreti simboli-verità, di struggenti allusioni; oppure cantare talora estesamente il dolore della perdita irrimediabile, la desolazione dell’isolamento, della perdita, come in Anni luce citata sopra. Il dolore, così presente e quasi mai nominato: Del moto assiduo dice dello sforzo di dimenticare, quasi della memoria affrontata dentro se stesso, che richiede un esercizio di pazienza e un lungo sforzo di volontà, un moto assiduo dell’anima in un'altra direzione,
altri spazi e colori. Quanto tempo
non saprei dire, quanto è già trascorso
da quando ho scelto, ho detto adesso provo a
dimenticare. Facile misura

non esiste, se sfumano i contorni
dell’obiettivo e forse si nasconde
in qualche spazio d’ombra la memoria,

arduo frugare tutto il labirinto,
le stanze che non sai. Dimenticare
o rivederti solo a volte, in sogno.

A questo intenso impegno per cancellare una memoria tormentosa, trafiggente, è quasi contrapposta, sulla medesima pagina del libro, la qualità meccanica della memoria di You Tube, che nelle due quartine del sonetto dice della fragile mutevole instabilità della memoria umana, e nelle terzine, invece, della propria stabile ripetività:

D’altra stoffa è tessuta la memoria
se deforma le immagini, se sfoca
il tempo o sovrappone voci e suoni
e silenzi improbabili. Altra stoffa

se spegne sensazioni e non domanda
 i confini del gioco. Non trattiene
la memoria i colori, non ha peso
una presenza in margine alla scena.

Ho una traccia magnetica che svolge
il racconto un’altra volta, che ripete
in sequenza ogni gesto, uno per uno.

Ho un tempo che moltiplica gli eventi
in serie non dissimili e non serve
domandarsi se c’è una storia vera.



Come in ogni poesia di questo autore dalla straordinaria forma mentis, sono presenti qui gli elementi esatti, i dati, siano essi tecnici o scientifici, calati in versi perfetti, e insieme il sentimento, il cuore, la nostalgia e il dolore dell’autore. Forse nostalgia è termine che il poeta mai adopera, ma che in profondo gli si addice come pochi altri, e vano sarebbe chiedersi ‘di che cosa’.
Anche in Microchips, che dice un breve sogno (e molti sogni, con il loro mistero e il loro fascino, il loro credibile/incredibile, sono presenti anche nelle raccolte giuntiniane precedenti) sono presenti il tempo e la fatica,// se bastassero, per dimenticare, ma qui è continuo il traslato con i termini della tecnologia. Anche nel sonno infatti sono circuiti elettronici ad attivarsi nella nostra mente: quale circuito, e dove nella notte/ si riaccende e muovendosi nel sonno/ riproduce l’immagine, ritrova un// contatto, la materia della lana/ che ti ricopre il braccio. Manca il tono/ della tua voce, un senso si trasmette // nello spessore del silenzio. E sfuma/ la traccia del percorso, un’onda nuova/ si annuncia e ti sommerge nel passato.
La pazienza e la lentezza sono due termini, o due concetti, ricorrenti fin dagli inizi nella poesia di Giuntini (già abbiamo veduto il Cervo bianco, che vorrebbe attendere paziente). Il peso del vivere richiede entrambe, quasi a dare il ritmo e la spaziatura necessaria, quasi a consentire il respiro, la sopravvivenza. La pazienza del mare si concede a/ volte un’ora di sonno è l’esordio de L’uragano (p. 8). E continua:
                                  Sia il calore
ad assopirla, sia qualche memoria
di un vecchio sogno che ritorna. Occorre

che conduca con sé, per qualche tempo,
la pazienza del cielo, si diranno
parole inesprimibili, vorranno
cercare o no l’accento per violare

il segreto, in un gesto rivelare
la scoperta alla terra. Lentamente
il pensiero si avvita su se stesso,

trova slancio per muoversi e raggiunge,
ormai stremato, la terra. La pazienza
si desta troppo tardi e il grido è vano.

Il sonetto che chiude la raccolta I colori dell’ombra  ha il titolo I bambini del mondo, che spesso piangono, ma per nozione appresa appena nati/ sapranno che gli adulti non capiscono/ il pianto che risponde alle parole. Gli adulti non raccontano ai bambini quello che ci si attende dal futuro, e se interrogati forse esiterebbero a spiegare che la colpa è stata loro, che tutto porta il segno/ della mano degli uomini. Alla sera

i bambini del mondo si addormentano
ma non diranno quello che hanno letto
nello sguardo che spegne e si allontana.

Giuntini rivela nuovamente la sua immensa interiorità, manifestata in immagini, metafore, pensieri, dati e scelte che – se il vero avesse sede abituale nella terra della scrittura poetica e della bellezza –  potrebbero forse essere altissima scuola per molti. Attraverso diverse sillogi, l’opera di Francesco Giuntini che finora conosciamo si è rivelata un grande affresco del tempo e dello spazio, degli spazi marini, terrestri e siderali, suggestivo anche per suoni, colori, forme cantate e riprodotte nei versi. Ma la bellezza dell’affresco è fittamente tramata, e per così dire giustificata – nella segreta lucida disperazione con cui il poeta contempla  – dal dolore dell’uomo e degli esseri viventi tutti, da cui tutto è pervaso.

   

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