lunedì 14 settembre 2009

Frontiere avide di dubbi latitanti (ricordando Simone Cattaneo)


presentazione di Chiara De Luca alla scelta di versi (v. infra) di Simone Cattaneo inserita ne La Borsa del viandante

“Stropicciata e senza nervi faticavi a contare / quante dita delle mani servono per sollevare / una tazza di caffè. È stato piacevole guardarti. / Sono messo meglio di te”. In questo verso di apertura delle poesie di Simone Cattaneo qui presentate emergono subito alcuni dei tratti che caratterizzano una voce diretta, sferzante e durissima, che spazia tra le varie gradazioni dell’ironia e fino al cinismo, ma con una costante attenzione al dato oggettivo in cui il poeta s’immerge senza alcuna pretesa di superiorità o intento di categorizzazione/tipizzazione. L’ironia è qui sempre anche autoironia, è considerazione della debolezza e della fragilità che ci accomuna tutti, e che rende vani gli sforzi di chi voglia illudersi di esserne immune, come chi “non s’è mai capito per cosa parteggiasse / forse solo per quell’albanese comprata e smontata / a piacere sulla branda buttata in fondo al cantiere”.
Simone Cattaneo dipinge con scabre e precise pennellate quadri di vita e ritratti che – contrariamente a quanto avviene in tanta poesia contemporanea – non rappresentano personaggi o tipi, per sentito dire o intuiti, bensì persone vive, reali, fin troppo capite, che pare di poter vedere, immerse in quel degrado che tutti ben conosciamo, ma che pochi sono in grado di dire in poesia rifuggendo alla tentazione di abbellirlo e stilizzarlo, o caricarne ulteriormente il già insito gradale grottesco.
Ogni cosa in questa poesia è osservata con uno sguardo che taglia, ridimensiona, senza alcun compiacimento “poetico”.
La parola è come riempita di nuovo per opporsi al vuoto, scagliata senza ponderare, senza dosare lo slancio verbale. È gesto in-mediato. Anche nei paesaggi naturali e urbani descritti il poeta coglie lo stesso degrado che abita l’animo umano e ne informa le azioni e relazioni: “A fine agosto il tuono morde i lampi prima che piova e / il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia”.
Altre volte il dato reale è colto attraverso il filtro della soggettività, alterata dalla percezione del dolore, e si anima figliando l’immagine mentale: “Guardo dalla finestra di casa lo scheletro di una lavatrice / partorire sotto i platani del viale una nidiata di conigli elettrici, / alzo la testa e vedo un soffitto di stagno rosso arancio / sbilanciarsi in avanti con rumori assordanti […]”

Chiara De Luca


da Made in Italy (Atelier 2008)

Una macchina viola priva di ruote
vicino al margine dei boschi
è quello che ricordo dell’ultima volta che ti ho vista
stropicciata e senza nervi faticavi a contare
quante dita delle mani servono per sollevare
una tazza di caffè. È stato piacevole guardarti.
Sono messo meglio di te.

***

Il mio amico Giulio si arrangiava mangiando ragni per pochi soldi,
con qualcosa in più si scolava un bicchiere di detersivo davanti
ai clienti del bar, ha impegnato la fede nuziale e ha preso lo scolo
per potere mangiare, odiava politici, froci, zingari e musulmani
non si è mai capito per cosa parteggiasse
forse solo per quell’albanese comprata e smontata
a piacere sulla branda buttata in fondo al cantiere.

***

Ho incontrato un mio vecchio compagno di calcio
alcuni mesi fa in un ristorante di Torino, abbiamo giocato insieme
per circa dieci anni, da altrettanti non ci si vedeva
ci siamo abbracciati e abbiamo ordinato da bere. Vive lì adesso, almeno
così mi ha detto, genitori e fratelli morti, una zia a Garbagnate e
qualche cugino vicino a Napoli, gli unici suoi gioielli.
Era già ubriaco. Nessuna donna, lavoro interinale e monolocale.
Poi mi ha domandato come me la passavo. A quel punto è caduto
dallo sgabello del bancone e si è fratturato femore e umore.
Ho pagato il conto, chiamato una autoambulanza e me ne sono andato
sapendo che non avrei potuto fare niente di più
quella notte, né per lui né per me. Quando giocavamo
insieme, entrambi difensori, non provavamo pietà per nessuno.

***

Gli amici si sposano, finiscono in qualche comunità riabilitativa non ben definita,
diventano dottori in legge, spacciano, pretendono il 41bis e
tu speri che qualcuno ti possa lasciare a marcire in una discarica
abusiva per uno sguardo sbagliato o un giro sfortunato
come fosse questa la costante stella cometa che indica la tua schiena
ma non c’è da stare male, nessuna donna ha annegato
il suo bimbo nella lavatrice in questo momento, nessun uomo
dagli occhi a spillo mi può fare evaporare come acido inaridito
a questa ora della sera.

***

Fiera dei suoi denti d’oro,mi guarda sorridendo una vecchia ucraina
sull’autobus diretto alla Bovisasca. Parla e non capisco nulla
ma annuisco sorridendo pure io, poi mi mostra le fotografie che tiene
nel portafogli. È mia figlia dice orgogliosa, studia all’università
di Kiev e queste parole le scandisce in un perfetto italiano.
Peccato che conosca sua figlia.
Spompina dietro la stazione Garibaldi per comprarsi Chanel n°5
e imitare Marilyn Monroe. Ma suppongo che la giovane ucraina
non si scopi nessun presidente americano né qualche senatore antiabortista.
È strana la vita in primavera, i sensi si svegliano e il cielo sembra
un grande defibrillatore.

***

Era il capocannoniere acclamato dei tornei di calcio dell’intero isolato
anche se riceveva la pensione di invalidità per totale cecità,
riusciva a spaccare il parabrezza di una macchina a mani nude senza tagliarsi,
aveva la pelle delle braccia flaccida come asfalto fuso
tutti i ragazzi non più alti di così
lo chiamavano Aladino perché risolveva ogni problema di vita con un buon consiglio.
È morto straziato dal monossido di carbonio di una stufa a metano,
ha lasciato alla ex moglie una roulotte verde sbiadita e
dei cumuli di spazzatura grandi come piscine comunali.
Quando ero bambino mi ha biascicato che per innamorarsi
bisogna procedere alla molatura per ottenere una superficie liscia oppure
percorrere un’autostrada contromano in agosto.
Perché proprio in agosto non l’ho mai capito.

***

Aveva uno scolapasta in testa e un unico canino in bocca
mentre ballava su un campo di calcio sterrato
fra i resti di un pranzo d’asporto rispondendo a monosillabi
a domande che nessuno poneva
con uno sguardo sgomento
rivolto verso il cielo spruzzato di cemento.

***

Aveva un piede valgo e studiava diteggiatura
mentre tramutava Ketamina liquida in cristalli per poi sniffarla
e mi chiese ad un tratto facendosi serio cosa ne pensassi
della situazione mediorientale e delle scarse risorse energetiche planetarie.
Mi sono tuffato sulla poltrona di pelle marrone del salotto e
ho chiesto un po’ di vino. Inizia la partita dell’Italia fra poco,
tutti in piedi a cantare qualcosa di diverso mangiandosi solfeggi e
salame: è solamente un’altra serata di calcio contaminato,
in attesa di una nuova leucemia.

***

Appena terminato di servire pasti caldi giù all’ospizio
mi infilo un cappello di carta con le orecchie foderate di pecora e
mi imbuco nel solito bar ad osservare fumi grassi attraversare
le finestre a forma di rombo e i feti sottoaceto nei vetri.
Tre Negroni e due Campari e poi di corsa fin dietro il vecchio ufficio postale
dove ormai solo cinesi e egiziani giocano a dadi
sperando di centrare un doppio sei che mi permetta di comprare
ogni alone di sole
e qualsiasi milligrammo di colore.

***

Non luogo a procedere.
Guardo dalla finestra di casa lo scheletro di una lavatrice
partorire sotto i platani del viale una nidiata di conigli elettrici,
alzo la testa e vedo un soffitto di stagno rosso arancio
sbilanciarsi in avanti con rumori assordanti, cammino rasente i muri
con la paura di inciampare nel materasso di lana arrotolato e
fracassarmi di nuovo la clavicola.
Vorrei che qualcuno mi picchiasse sulla schiena con degli
asciugamani bagnati
e mi scaricasse fra le macchine abbandonate in zone isolate.

***

Non è importante ciò che resta o si è fatto,
sono le cicatrici suppergiù visibili
disegnate sul corpo come una mappa di punti interrogativi
che mi piombano addosso e mi inchiodano qui davanti a te,
frontiere avide di dubbi latitanti
che non puoi risanare né ingabbiare
nemmeno se ti plasmi una religione su misura
colma d’amore per i sudari e le leggi marziali.

***

Ma tu scorgi la planimetria di qualsiasi città prima ancora di svegliarti:
un’attitudine naturale a cacciare la testa nel forno
per sensibilizzare l’olfatto, un’audacia nel passare un ferro rovente
sul braccio per acuire il tatto, soldi regalati ai cartomanti
e chiodi al posto degli stivali che si infilano fino ai polpacci.
Poi busso alla tua porta aperta e anche la gravità mi sembra
uno scherzo di cattivo gusto mentre ti guardo in accappatoio
sussurrarmi – Oggi tocca a te, domani tocca a me. –

***

Lampade al sodio guaste sul pavimento della cucina
e intorno al mio corpo macchie d’olio che sembrano vermi
gli occhi lucidi come bigiotteria
e una specie di bitume che sigilla il cielo del Mediterraneo,
mentre parlo sempre con le braccia tese davanti a me
come per spingere via un corpo assente.

***

La prima parola di latino che ho imparato è “silentium”.
Stava scritta su un pezzo di cartone giallo attaccato al muro del bar in cui
servivo da bere in estate. “Silentium” ossia “silenzio” in un luogo dove
grida, schiamazzi, scommesse e intrallazzi erano come luce all’alba,
suonava un po’ strano per un bimbo con i piedi sulle spalle come me.
Quando il bar chiuse decisi di portarmi a casa quel cartello ma
non lo volevo rubare, il proprietario era un amico che stava in piedi
per grazia ricevuta così gli feci la mia offerta, un’offerta più che
generosa per un pezzo di cartone logoro e sporco.
Almeno una ventina di persone prima di me avevano fatto lo stesso e
con cifre ben più consistenti. Perdigiorno, ubriachi, zingari e ladri
ad un’asta abusiva per un po’ di latino. Alla fine se lo aggiudicò
uno zingaro friulano in cambio di mezzo milione di lire in contanti.
La vigilia di natale incontro questo ragazzo nel bar sottocasa dove
festeggio sempre le feste comandate che mi tira fuori quel logoro cartello
avvolto in una busta da supermercato. È per te mi dice, ci tenevi tanto.
Non capivo se mi pigliasse in giro o volesse chissà cosa.
Mi sono girato e sono tornato a brindare con gli amici.
La cosa per me era finita lì. “Silentium”.

***

La cagna ha cambiato canile, mia moglie ha cambiato marito.
Così una sera di novembre, il mio amico Pino mi ha descritto
la sua vita sentimentale sdraiato sulla poltrona di plastica verde
della mia cucina. Poi ha spento la lampada al magnesio
macchiata dalle mosche, mi ha chiesto come stavo e
senza aggiungere altro se ne è andato.
È rincasato camminando sulla striscia a linea continua
della provinciale sperando che la notte si potesse tagliare.




inediti

A fine agosto il tuono morde i lampi prima che piova e
il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia,
cammino sulla strada crivellata di buche come fosse
un costoso tappeto cinese, la neve gialla è ancora lontana,
la luce pare un caleidoscopio difettoso ed io vado
dove i ragazzi hanno denti d’oro larghi come gonne a fiori
e nessuno mi potrà più servire da bere vino tagliato con il solfato di rame.
Ormai è un furto ogni prospettiva di fuga.

***

Stavo scrivendo una lettera a Dean Martin
così per ragionare sui sistemi massimi dell’esistenza
quando mi fermai e decisi di uscire di casa.
Incontrai un tipo dai capelli fulvi e lo sguardo da assassino,
allora intonai una vecchia ninnananna per rassicurarmi e
deciso mi infilai nei cessi della stazione.
Oltre ai soliti marchettari, puttane, spacciatori e compagnia bella
vidi un tizio che inzuppava furtivo pane nell’orinatoio appena usato da altri
per poi mangiarselo con gusto. Aspettai una buona mezz’ora fuori dai cessi
prima che uscisse, volevo parlargli, chiedere spiegazione sulle sue direttive dietetiche
e domandargli quale fosse la sua posizione sull’imminente invasione aliena e sui vegani in generale.
Ma appena mi vide mi scambiò per un semplice marchettaro e lì per lì non sapendo cosa fare
accettai. Per cento euro gli feci un pompino, e dopo una buona ora
passata a sentire della musica
metallara brasiliana mi fece il culo. Tornai a casa soddisfatto.

***

La mia donna crea dipinti con i suoi capelli castani
sul mio petto scuro,
aspetta sulla soglia della mia carne ogni suo errore,
mi conforta dicendomi che soffrirò da solo,
cadrò e non mi solleverò,
ucciderò sette persone e avrò tanti giorni di carità
quanti un cane in un canile, rimarrò solo senza più denti,
farmaci né sentimenti
finirò come quello straniero incontrato un lunedì pomeriggio
in un caffè di Milano centrale.
Più o meno la sua vita era andata così – I had a woman,
she left me –. Nulla più di questo.


Simone Cattaneo è nato nel 1974 a Saronno (VA) ed è morto nella sua città nel settembre 2009. Sue poesie sono state pubblicate sulle riviste «Atelier», «La clessidra», «Hebenon», «Poesia», «Letture», «Graphie», «Tratti», «clanDestino», «La Mosca di Milano«, «Il primo amore» e «Ore piccole».
È incluso nelle antologie: L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta (Atelier, 1999), a cura di Giuliano Ladolfi; Dieci poeti italiani (Pendragon, 2002), a cura di Maurizio Clementi; Lavori di scavo. Antologia dei poeti nati negli anni ’70, Antologia web di Railibro 2004; e in 100 Poesie di odio e di invettiva, a cura di Antonio Veneziani (Coniglio Editore, 2007). Inoltre è presente nell’antologia curata da Davide Brullo, La stella polare. Poeti italiani dei tempi “ultimi” (Città Nuova, Roma ). Ha pubblicato due libri: Nome e soprannome (Edizioni Atelier, 2001 ) e Made in Italy (Atelier, 2008 ).

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