Prima edizione pillole BUR Rizzoli, Milano, 2007
recensione di Caterina Camporesi
Non lascia adito al dubbio il titolo del libro che Daniele Piccini adeguatamente introduce e documenta nelle tredici sezioni dagli eloquenti testi poetici di lingue diverse, tempi e luoghi lontani. Tutto contribuisce a testimoniare la carica coesiva ed eversiva che la poesia possiede. Ciò avviene anche grazie allo strumento della lingua che, unendo il poeta alla società civile, costruisce vasi intercomunicanti che, alimentandosi reciprocamente, creano possibilità di trasformazione con ricaduta sia nella sfera soggettiva che collettiva. “La voce del poeta,” come afferma Octavio Paz, “è sempre sociale e comune anche nel caso del maggior ermetismo”. Già nei Salmi incontriamo il popolo di Israele ritrovare l’ unità e la forza del riscatto attraverso il canto poetico: “Là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportato, / canzoni di gioia, i nostri oppressori: / «Cantateci i canti di Sion!»”(p. 15). Ancora in epoca risorgimentale l’inno di Goffredo Mameli unisce il popolo nella lotta per la costruzione di un regno unitario: “Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi, / Perché non siam popolo, / Perché siam divisi. / Raccoltaci un’unica / Bandiera, una speme; / Di fonderci insieme / Già l’ora suonò” (p. 58).
Anche il sogno democratico dell’America del Nord trova nei versi di Walt Whitman incitamento ed ottimismo e il linguaggio è strumento e contesto per dire le cose: “Io sono colui che percorre gli Stati con lingua fornita di / punte, interrogando chiunque incontro, / Chi sei tu che volevi ti si dicesse soltanto quello che già / sai? / Chi sei tu che volevi solo un libro che si aggiungesse ai tuoi / nonsensi?” ( p.168 ).
La poesia attinge nutrimento dalle fonti più nascoste e profonde della storicità così che può tornare allo stato originario e allo stesso tempo dire più di quel dice, poiché non solo accoglie il perso del passato, ma prefigura anche il futuro. Splendidi i versi di Clemente Rebora: “Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / E la vita s’intendono ancora” (pag. 81).
L’immaginazione poetica, resistendo alla parola svilita del quotidiano, a quella banale della comunicazione di massa e a quella ambigua della politica, “tiene la storia in uno stato di veglia e di attesa”. Paola Masino lo dice al meglio: “Ci fu un tempo per tutta la paura, / per la speranza, / in quel notturno vento di temporale” (p. 98).
Più che sufficienti, quindi, le ragioni, per non lasciarsi irretire dal pessimismo del poeta Wystan Hugh Auden, allorquando deluso dalla politica dei suoi tempi, perentoriamente sostiene che “la poesia non fa succedere niente”.
Paradossalmente sembra che gli scienziati siano fautori più ottimisti circa le capacità di trasfigurazione che l’arte possiede, in particolare coloro in grado di coniugare creativamente due vertici: quello scientifico e quello filosofico.
Valgano per tutti i nomi di René Thom e Thomas Khun, quasi contemporanei, che considerano progresso non solo quello scientifico ma anche quello che riguarda la sfera del pensiero e del progresso umano.
Nulla di strano allora che nuove visioni del mondo scaturiscano dalla forza prorompente di una metafora o dalle infinite possibili combinazioni tra immaginazione, sogno, razionalità o quanto altro pertinente all’uomo.
Accanto a chi dice che la poesia non cambierà il mondo c’è anche chi afferma che “l’impegno poetico è l’impegno più politico che sia possibile ad un artista”, mettendo sulle spalle del poeta la responsabilità della dedizione totale al proprio compito.
Quando si parla di mutamento si fa necessariamente riferimento a due stati fra loro in conflitto, vale a dire, la stasi e il movimento il cui passaggio dall’uno all’altro subisce un limite, oltrepassa un ostacolo, tollera un processo di rottura, affinché l’avventura della conoscenza possa esplorare nuove terre.
La poesia sembra abitare i margini e solo da questo vertice può scorgere e cogliere il di qua e il di là.
Allorquando la nuova fase della storia si manifesta, spesso, insorgono disordine e confusione che preludono ad una sorta di rivoluzione il cui esito può approdare in trasformazioni di breve o lunga durata, profonde o superficiali.
Siamo grati a Daniele Piccini per averci fatto ripercorrere con questo prezioso libro tappe significative della storia dell’umanità e di avere chiuso la raccolta con i versi del poeta contemporaneo argentino, già in lotta con la dittatura militare del suo paese, Juan Gelman, il quale testimonia più di altri il travaglio della modernità con una parola potente di dolore, di umanità e di solidarietà senza confini tra vivi e morti: “adesso passano i compagni con la lingua serrata / passano fra i piedi e i sentieri dei piedi // passano cuciti alla luce / raspano il silenzio con un osso / l’osso sta scrivendo la parola «lottare» / l’osso è diventato un osso che scrive”.
domenica 5 aprile 2009
Su Le poesie che hanno cambiato il mondo di Daniele Piccini
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