Leggere fa bene all’anima, agli occhi, alla lingua. Le poesie recitate ad alta voce danno il senso vero di quella parola “verbo” che abbiamo sentito sovente nella liturgia cristiana e in altre religioni. La raccolta di Gabriella Bianchi è la ricerca profonda del valore del “verbo” che diviene Poesia. La poetessa ha letto tanto, direi che il libro è stato il suo primo amante a dodici anni: “Leggevo Emily / e volavo al nord / fino alla casa / del reverendo Bronte” (pag. 73) e da allora non ha smesso di essere prigioniera di questo amore senza uguali: “Vivo tra boschi e libri / sapendo che i libri / sono figli dei boschi” (pag. 52).
Da questo amore è nata una poetessa che raccoglie lungo il suo cammino la trigonometria della composizione poetica: angoli di infanzia opposti ad angoli di violenza quotidiana vissuta in città; rette incamminate verso i meno abbienti e le risorse del pianeta opposte allo spreco della civiltà contemporanea: “Quando la generazione della play station / sarà matura” (pag.19); tangenti che intersecano universi di poesia appartenuti ad autori di grande rilievo e fatti propri generando la sostanza che lascia alla poetessa il diritto di affermare (“io resto nella trappola dei sogni / come una lepre, e scrivo sulla sabbia”, pag. 24).
Molteplici sono gli spunti di lettura e principalmente di riflessione. Tanti gli appigli a poeti che hanno segnato il Novecento non solo europeo: dall’amore per i gatti di Baudelaire, all’amore per l’umanità di Wislawa Szymborska nel suo discorso in occasione del Nobel per la poesia; dall’esule Sandro Penna, alla solitudine dell’imperatore Adriano. Proprio la solitudine, l’amore per la madre, hanno generato l’aratro che segna i solchi poetici di Bianchi: “Sento che posa una mano sulla spalla / materna e amica” (pag. 33), “dove la parola incide segni / come un rasoio / e la solitudine / ha forma di croce” (pag. 18).
Le certezze poetiche che trasmette questa raccolta sono nelle metafore, nel girotondo di chiuse poetiche che sanno di ninna nanna. Ma non è un piegarsi su sé stessi, anzi dai versi emerge una donna in tutta la sua bellezza interiore, priva di orpelli, sagace al punto giusto, ironica per difesa: “Il paradiso degli esuli è questo: / un cuore semplice (omissis) che racconta fiabe ai bambini / sotto una quercia amica” (pag. 16). Dove per bambini leggasi poeti, oggi più umiliati che mai dalle morti inutili, dalle guerre che durano anni ed anni, dai profughi senza vita lasciati nelle lande dei continenti; poeti che resistono come “gitani” di poveri condomini, senza la preoccupazione di essere sulle prime pagine dei quotidiani, nello specchio di Narciso che uccide i sogni dei bambini: la televisione.
Poetesse per scelta umana, dignitosamente umana: “Noi abbiamo tane minuscole / e disadorne / sia in vita che in morte” (pag. 80).
Aprile, 2009
1 commento:
Grazie per la tua accurata analisi, Vincenzo. Hai saputo leggere e interpretare il "Paradiso degli esuli" con molta sensibilità e con grande cura. Sono commossa per tanta attenzione. Noi poeti (quelli non famosi) viviamo in un mondo sommerso e siamo felici se qualcuno ci legge. Se poi quel qualcuno è un altro poeta, vuol dire che il messaggio lirico non è caduto nel vuoto. Grazie di cuore. Gabriella Bianchi
Posta un commento