lunedì 9 marzo 2009

Di questi tempi… i poeti rubano?

di Oreste Bonvicini

… scrivere potrebbe sembrare un’attività snobistica in rapporto alle difficoltà che ogni giorno si annunciano più gravi sul fronte economico e della stabilità dei mercati che determinano di conseguenza, la stabilità di questo sistema politico, di questa società. E stretti come siamo tra sommovimenti sociali, oggi tocchiamo con mano quanto il mondo sia mutato dinanzi ai nostri occhi che, pur riconoscendolo, si ostinano a non prenderne atto. Mutato, irreversibilmente? Nulla ci pare impossibile, tutto plausibile perché ci sentiamo incapaci di pensare in modo positivo al domani. Quale realtà andremo ad affrontare e quali sacrifici, andando con la mente al tempo che abbiamo lasciato svanire nel nulla, nel colpevole non fare, accettando di ingrossare i nostri glutei anziché affrontare la realtà a viso aperto e dichiarare al mondo che nulla o poco ci soddisfa, di questa società? Ma le notizie dei quotidiani generano pensiero poco edificanti e di rimbalzo nulla pare veramente trasparente in questa economia che ha camminato, in questi ultimi quattro lustri, sulle sabbie mobili dell’azzardo.
Ma c’è notizia e notizia.
Per questo c’è differenza tra le notizie di ogni giorno che si affacciano alla sguardo e che ossessionano con il tambureggiante ritmo delle informazioni. In realtà quanto di ciò che ci viene riferito ogni giorno è veramente importante? Quanto verosimile? Quanto vergognosa e opportunistica menzogna?
Pensiamo, per contro, a quante volte leggiamo un libro di un autore importante durante la nostra vita. Poche. Per questo poco è veramente importate, ma molto ci angoscia.
Hegel affermava che lo spirito del tempo in cui si scrive è ben diverso di quello di cui si scrive.
Per questo penso a quanto siano impoetici questi ultimi mesi. Non perché la poesia non possa sposarsi con la realtà, bensì perché non c’è poesia laddove il poeta non scorge spazio per elaborare la sua tesi e si lascia coinvolgere dalle cose del mondo. Corre cioè il rischio di esserne fagocitato. Non ci possiamo permettere di smarrire la tenacia che la poesia possiede, forma libera di espressione, anche laddove devono prevalere le istanze di un fare versi civili per altro poco graditi ai poeti laureati.
Resteremo per sempre legati al tempo in cui siamo vissuti. La cronaca diverrà storia, testimonianza anche. Non per valicare il confine della letteratura, ma per lasciare in pegno il disagio che pervade lo sguardo di chi, attento, non volge altrove l’attenzione, né si distrae inseguendo l’effimero.

***

Solo i bambini che guardano oltre i finestrini del treno che corre nella campagna, godono di uno spettacolo. È la verità che sfreccia dinanzi ai loro occhi. La porteranno con i ricordi del viaggio, il colore delle stazioni a cui sono scesi, o dei paesaggi che si sono alternati fino all’arrivo.
Solo i bambini sognano ancora il viaggio. Per ripartire.





QUALE POESIA?


Non sia incolmabile divario
tra scienza e verbo, tra teologia e sapere.
Che si possa dire ancora poesia
l’insieme delle conoscenze
indimostrabili ma vere?



Può apparire ozioso dedicare alcune pagine ad un interrogativo che forse la sola lettura degli autori contemporanei potrebbe svelare. Ma la ridda di riviste che affollano il panorama nazionale, nonché il numero esorbitante di concorsi che tendono a scavalcare il senso stesso della poesia riducendosi a vetrina più per gli organizzatori che per gli autori, crea un certo disorientamento. E non sarà la volontà di mettere in discussione questi atteggiamenti, (il tempo renderà giustizia al poeta, non un concorso letterario), bensì la necessità di far chiarezza laddove le riviste più accreditate sfrondano una messe di materiale che perviene loro e danno un indirizzo teorico, legate alle scuole di pensiero che talvolta valicano il confine tra l’immaginario e l’onirico.

Scrivere è una necessità interiore o un’arte che come la pittura o la scultura si esprime attraverso il segno ovvero la parola?

Per Montale la tendenza della poesia a lui contemporanea fu di “farsi prosa senza essere prosa” che, nell’ambito della modernità poetica novecentesca investe tutta la poesia e gli autori che devono le loro scelte obbligate a tempi storicamente mutati e rilevanti. Evidenti furono i riflessi sulle arti.

I poeti rubano (T.S. Eliot)? O forse trasformano la materia data loro in pasto, con sensibilità ciascuno rielabora, ricuce, ridimensiona a propria immagine e somiglianza? Ricreano sul creato. Rigenerano.

Talvolta il dubbio che più ci angoscia è quanto nelle nostre parole genera inganno. Siamo noi che ci autoinganniamo, con il racconto di ciò che pensiamo di conoscere? O la misura certa del quotidiano desta in noi un desiderio di parola che ai lettori svela un’altra dimensione?
Scriveva Edmond Jabès (il percorso): “E se il libro, nelle sue astuzie e arditezze, fosse soltanto la folle resistenza al niente dell'ultimo foglio?”

E ancora: che cosa ci spinge a leggere poesia? Che cosa accade durante una lettura di un testo poetico?
“La poesia come peculiare pratica del linguaggio ha qualcosa che attraversa il tempo, poggia su di una permanenza, su qualche fenomeno di lunga durata, una convenzione fondamentale, e che è in virtù di questa consistenza antropologica che noi possiamo considerare con una certa familiarità, nonostante tutto intorno ci suggerisca che essa è un corpo estraneo nel mondo contemporaneo, una forma anomala, immotivata, obsoleta, di dirigersi al linguaggio.” (Andrea Inglese in Atelier, n. 46 giugno 2007)


Tutto ciò deriva dal linguaggio verbale che può divenire scrittura? Parola incisa sulla pietra?
“Il linguaggio verbale è lineare, segmentabile e, ciò che più conta, è in grado di creare una quantità pressoché infinita di messaggi con un numero limitato di unità. Queste proprietà consentono indubbiamente non solo di riformulare in diversi modi il medesimo messaggio, ma anche di assumere come contenuto il mezzo di codificazione e trasmissione del messaggio stesso.”
(Dizionario di Linguistica, filologia, metrica, retorica…. Einaudi)

Ma il linguaggio, la parola, espressione umana che giunge alle labbra è l’unico strumento che esprime il pensiero in modo diretto? La parola è in grado di esprimere completamente il concetto?

“Ho sempre in qualche modo pensato che la letteratura, nella sua essenza, sia un racconto orale e anonimo; sarebbe meglio se gli autori non esistessero o almeno non fossero identificati, - se fossero sempre morti – come disse una volta a Grado una bambina a Biagio Marin, - o costretti all’incognito e alla latitanza”… (C. Magris, in Libri di lettura da Alfabeti 2008)

Confondersi o sparire?
È il desiderio del poeta. Egli mira all’invisibilità corporea. Non alle pagine dei quotidiani, agli schermi delle televisioni, a dar voce e corpo alle parole… Solo il verso valica il confine labile che circonda il poeta che vive la quotidianità, immerso nelle sue attività, spesso lontanissime dalla poesia, così vincolata ancora all’immagine romantica dell’autore che consuma la propria vita alla ricerca del bello per il bello.



Paesaggio.

“E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e dimenticano se stessi.” (Sant’Agostino)

La curiosità che in viaggio si acquisisce per una località o per una regione che ci fa innamorare del suo clima o del suo paesaggio, appare come la passione per uno scrittore di cui leggeremo tutte le opere e di cui ci sentiremo orfani quando le avremo esaurite. Allora tenteremo di trovare sollievo guardandoci intorno e, scoperte le sue cose minori o dimenticate, forse anche le poesie giovanili che lui stesso in vita ripudiò, ci affezioneremo a quella spiaggia ultima della conoscenza, ovvero particolare tanto ininfluente quanto affascinate poiché incapaci di collocarlo criticamente nel panorama della sua opera.
E affezionandoci al particolare, sarà come abbracciare un paesaggio che tanto amiamo e crederlo tutto compreso in quell’abbraccio, mentre in realtà stringeremo solo i rami degli alberi tagliati prima della fioritura o le ultime sterpaglie raccolte prima dell’inverno, o forse l’erba del prato, quello più lontano e in ombra, che nessuno sembra avere mai apprezzato.

E se quel paesaggio che grazie ad un particolare, ad un banale ma soprattutto inatteso evento che riemerge dalla notte del tempo, susciterà il ricordo forse del giorno più bello vissuto in una città lontana, o di un’estate affrontando i ripidi pendii delle valli alpine che più volte cercammo con intelligenza di resuscitare dalla memoria, ritroveremo la luce che pensavamo sopita, l’intima essenza di quanto ci fece innamorare?




Poesia o racconto


La quiete della poesia è nel susseguirsi degli eventi di cui racconta. Così quando inizio a guardare il profilo delle montagne, il mio sguardo non è più lo stesso che scorre sulle cose di ogni giorno. Scopro le vette di cui la prima volta ho risalito ( a passo lento) i declivi. Le riconosco come riconoscerei un compositore ascoltando le prime note di un brano della sua musica, un poeta dall’incipit di un suo verso, un film da un fotogramma, un volto da uno sguardo amico.
Cerco con lo sguardo la vetta e l’imbocco della valle, presto in ombra quando il sole è quello di un autunno anticipato.
Mi stupisco come, riguardando certe fotografie che mi ritraggono, sia sul mio volto un segno deciso di ostinazione, lo stesso che credo di aver sempre offerto al mondo. In realtà non fu che una forma di difesa. Dentro di me nulla di tutto ciò si è mai rivelato. La vita può apparire come un banale trascorrere di eventi che si susseguono nei giorni, attendendo la notte e con essa il sonno, come se dal sonno avesse origine qualcosa in più del semplice riposo: la fuga in un luogo ideale e idealizzato, pur restando immobile tra le proprie cose.
Per questo, prima di addormentarmi, ripenso alle vette che ho sfiorato e solo talvolta raggiunto, con le mie modeste energie, con il minimo equipaggiamento, Penso alle sensazioni che provavo sulla pelle quando a tremila metri di quota cambiavo la mia camicia madida di sudore sulla schiena per il peso ed il contatto con lo zaino affardellato ed indossavo, sulla nuda pelle, una vecchia maglia di lana. Quel contatto, quel respiro mi consentiva di sentirmi parte, con il sole sul volto e lo sguardo intorno, del vuoto che dominava le valli sotto di me, e divenire un unico con il luogo in cui mi trovavo.

Anche per questo, ancora oggi, mi addormento rapidamente. Vivo come se il mio respiro fosse ancora lassù, a contatto con un’atmosfera che i miei vent’anni e poco più credevano immutabile e che ogni anno, al ritornare dell’estate, tornava a rubarmi i giorni ed il pensiero, con l’attesa che si faceva intensa. Allora ancora non comprendevo che le attese a lungo anelate sminuiscono il quotidiano, finché disimpariamo a viverlo se non in prospettiva di qualcosa che, al contrario, presto, troppo presto, finisce.



Nessun commento: