recensione di Anna Maria Tamburini
Il libro ha un’apertura di respiro cosmico – il volto della terra, sul quale solo si inscrive la singolare figura di ogni uomo – e al tempo stesso di rivisitazione di una identità poetica nel rispetto dei modelli della tradizione: eternerai divina arte…? Nella domanda l’invocazione alle muse ripete un cantami o diva che assume sogno e segno a materia di canto: l’inconscio e il conscio, rispettivamente desiderio umano e scrittura. Poesie di una psicologa titolava il primo libro di Caterina Camporesi; Solchi e Nodi, questo: “Solchi nei corpi” e “Nodi nel tempo” sono i titoli delle due sezioni sulle quali è costruito il libro secondo una struttura binaria sottolineata anche dall’organizzazione rigorosa dei versi in distici, una organizzazione che modifica la forma componimento dove e quando il testo era già apparso in precedenti pubblicazioni, come nel caso di un c(‘)ero malfermo già uscito nell’antologia poetica Folia sine nomine (Marsilio, 2005), felice e replicato esperimento di anonima scrittura collettiva, che si lascia tuttavia facilmente riconoscere, nella gran parte dei casi.
Ma se la forma è rigorosamente scandita, al tempo stesso i versi risultano come sospesi, questi di Solchi e Nodi, perché rigorosamente privi di ogni forma di punteggiatura, non necessaria per altro in ragione della brevità della misura, ma anche per coerenza con il libero gioco delle combinazioni sintagmatiche. Anche il soggetto spesso si confonde, si disloca, si perde. Si avverte, infatti, nella forzatura della sintassi, dell’ortografia, delle allusioni suggerite per via di contiguità semantiche e foniche, un lavoro sulla parola che si affida alla natura stessa della parola più che al bisogno di comunicare del poeta, qualcosa di simile al pittore che consegna al colore o ai materiali l’esito del suo lavoro, più che al disegno che egli stesso ha concepito in origine, come moto impulsivo. Di(s)senso – p. 23 – e c(’)ero – p. 72 – sono rappresentazione anche grafica di tale libero e al tempo stesso soppesato versificare: per quanto levigato e rastremato, il testo si costruisce sapientemente su assonanze allitterazioni e rime assai più di quanto non appaia a prima vista.
Restano cifre semantiche inconfondibili, termini chiave come nidi, panico, angoscia. Con lo sguardo fisso sul tema del tempo la poesia accosta ripetutamente il sacro, senza abbandonarvisi, e anzi speculando razionalmente sugli accostamenti esaltati dagli ossimori (l’indiviso divino / serpentino il volo):
con ali d’aquila tenta in verticale
l’indiviso divino
serpentino il volo
perpetua causa caso fine
In questo caso sembra un canto liturgico desunto dal salterio – con ali d’aquila – e forse ascoltato per l’occasione di una qualche cerimonia a generare l’accostamento.
L’ossessione del duende (p. 24) è costante che manifesta non solo una continuità con la precedente raccolta – il libro precedente Duende si apriva con una citazione da García Lorca: il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue – ma soprattutto questa meditazione sul tempo e sulla morte, mai distratta, anzi intensificata dal dolore e dal sangue, e stilizzata in una perfetta topografia di solchi e nodi.
Il libro ha un’apertura di respiro cosmico – il volto della terra, sul quale solo si inscrive la singolare figura di ogni uomo – e al tempo stesso di rivisitazione di una identità poetica nel rispetto dei modelli della tradizione: eternerai divina arte…? Nella domanda l’invocazione alle muse ripete un cantami o diva che assume sogno e segno a materia di canto: l’inconscio e il conscio, rispettivamente desiderio umano e scrittura. Poesie di una psicologa titolava il primo libro di Caterina Camporesi; Solchi e Nodi, questo: “Solchi nei corpi” e “Nodi nel tempo” sono i titoli delle due sezioni sulle quali è costruito il libro secondo una struttura binaria sottolineata anche dall’organizzazione rigorosa dei versi in distici, una organizzazione che modifica la forma componimento dove e quando il testo era già apparso in precedenti pubblicazioni, come nel caso di un c(‘)ero malfermo già uscito nell’antologia poetica Folia sine nomine (Marsilio, 2005), felice e replicato esperimento di anonima scrittura collettiva, che si lascia tuttavia facilmente riconoscere, nella gran parte dei casi.
Ma se la forma è rigorosamente scandita, al tempo stesso i versi risultano come sospesi, questi di Solchi e Nodi, perché rigorosamente privi di ogni forma di punteggiatura, non necessaria per altro in ragione della brevità della misura, ma anche per coerenza con il libero gioco delle combinazioni sintagmatiche. Anche il soggetto spesso si confonde, si disloca, si perde. Si avverte, infatti, nella forzatura della sintassi, dell’ortografia, delle allusioni suggerite per via di contiguità semantiche e foniche, un lavoro sulla parola che si affida alla natura stessa della parola più che al bisogno di comunicare del poeta, qualcosa di simile al pittore che consegna al colore o ai materiali l’esito del suo lavoro, più che al disegno che egli stesso ha concepito in origine, come moto impulsivo. Di(s)senso – p. 23 – e c(’)ero – p. 72 – sono rappresentazione anche grafica di tale libero e al tempo stesso soppesato versificare: per quanto levigato e rastremato, il testo si costruisce sapientemente su assonanze allitterazioni e rime assai più di quanto non appaia a prima vista.
Restano cifre semantiche inconfondibili, termini chiave come nidi, panico, angoscia. Con lo sguardo fisso sul tema del tempo la poesia accosta ripetutamente il sacro, senza abbandonarvisi, e anzi speculando razionalmente sugli accostamenti esaltati dagli ossimori (l’indiviso divino / serpentino il volo):
con ali d’aquila tenta in verticale
l’indiviso divino
serpentino il volo
perpetua causa caso fine
In questo caso sembra un canto liturgico desunto dal salterio – con ali d’aquila – e forse ascoltato per l’occasione di una qualche cerimonia a generare l’accostamento.
L’ossessione del duende (p. 24) è costante che manifesta non solo una continuità con la precedente raccolta – il libro precedente Duende si apriva con una citazione da García Lorca: il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue – ma soprattutto questa meditazione sul tempo e sulla morte, mai distratta, anzi intensificata dal dolore e dal sangue, e stilizzata in una perfetta topografia di solchi e nodi.
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