sabato 27 dicembre 2008

Su Mus.cio e roe (Muschio e spine) di Fabio Franzin

Le Voci della Luna, 2006, pp. 152, prefazione di Edorado Zuccato

nota di lettura di AR

Un libro di vera poesia che dà alla lingua di un angolo veneto una portata universale (dunque un libro che molti dovrebbero darsi il piacere di leggere). Una sobrietà intelligente, concreta ed emozionante caratterizza questi versi di Franzin capaci di rendere alle cose quotidiane (che spesso diamo per scontate, ricordandocene solo quando ci vengono a mancare) quella pregnanza di senso, quella eticità di cui sono intrinsecamente portatrici. Il poeta si muove in questa “materia” quasi in punta di piedi, ma con occhio attento e acuto: l’uso di metafore e similitudini vivide e originali, di parole mai scelte a caso e “appoggiate” a una melodia dal ritmo marino e suadente paiono cullarci e invece ci provocano, mettendoci davanti agli occhi quegli squarci di realtà (ambientale, famigliare, umana) che restano laterali in questi giorni globalizzati e consumistici, eppure sono fondanti, perché è su questi squarci che si può recuperare il senso dell’esistenza. Si tratta insomma di poesie che rendono profetica una nostalgia che non vuole lodare il passato ma fornire valori e radici a un presente che sembra disorientato, specie oggi che un certo modo di intendere la finanza e l’economia è entrato in profonda crisi. Il “messaggio” di Franzin fa tesoro della tradizione e la declina in composizioni dallo stile maturo, molto ben caratterizzato, e non solo contemporaneo ma, come si diceva, profetico: una voce che grida dimessa eppure con forza tellurica dando anima a tutto quello che nomina.
Qui di seguito alcuni brevi passi tratti dalle 4 sezioni che compongono il volume.

Da Paesàji e lontananze (Paesaggi e lontananze)


Che segno pòrtea a gàea
’a secatrìce pì vècia?
a ’ndarghe drio co’na ongia
se injàzha un sogno di viéro,
e ’a candéa che te tièn
tel palmo, inpizhàda,
no ’a ’è pì longa de un sguardo.
(…)

Quale simbolo affiora / nella cicatrice più antica? / A seguirlo con un’unghia / si congela un sogno di vetro, / e la candela che tieni / nel palmo della mano, accesa, / non è più lunga di uno sguardo. (p. 16)


Bussa pian, e no’ co’e man,
Tóche co ’i òci chea porta,
parché darìo de dorme el scuro,
(…)

Bussa piano, e non con le mani, / toccala con gli occhi quella porta, / perché dietro ad essa dorme il buio, … (p. 27)


Còss’eo che l’ fat coeassàr i segni,
Che li ’a fati svnpìr via da l’inchiostro?

s.ciòpa ’e paròe in tramèdho ’na frase,
’e letere, a s.ciapi, ’e pàr tràdhe come
drento ’na inpirìa de spèci, e tut el poema
se condenza te un punto, te un busét nero
(…)

Cosa avrà mai fatto collassare i segni, / cosa li avrà fatti evaporare dall’inchiostro? // esplodono le parole in mezzo a una frase, / le lettere,a sciami, paiono come risucchiate / entro un imbuto di specchi, e tutto il poema / si condensa in un punto, in un piccolo buco nero … (p. 32)


Ma pensa anca ai sassi.
(…)
Pàr chii spète sol che i nostri passi
pa’ scuminzhiàr a sonàr, pa’ cantàr
insieme co’i nostri pie, co’e paròe
che sgrincia drento i nostri pensieri.

Ma pensa anche ai sassi. / (…) Sembra che attendano solo i nostri passi / per incominciare a suonare, per cantare / insieme con i piedi, con le parole / che scricchiolano dentro ai nostri pensieri. (p. 47)



Da Storièe e quaréti (de pianura) (Racconti e ritratti (di pianura))

Crèpi

Zhèrti cèi, curti crèpim tea tèra,
co’l sol la ssuga suito
dopo ’na spuaciàdha de piova tel sec.

Cossì ’e rughe drio ’l còl
scuro dei vèci. Quee che intìve
te mé pare pare, vègner fòra
soto ’l coèt dea camìsa,
co’l sbassa un fià ’a testa.

Zhèrte, squasi invisìbii, sgrafàdhe del tenpo
tea fòdra dea vita.

Solchi – Certe piccole, corte crepe, nella terra / quando il sole la asciuga subito / dopo uno sputo di pioggia sul secco. // Così le rughe dietro il collo / scuro dei vecchi. Quelle che scorgo / in mio padre, fuoriuscire / sotto il colletto della camicia, / quando abbassa un poco il capo. // Certi, impercettibili, graffi del tempo / nella fodera della vita. (p. 89)



Da Dai paesi al presepio

Far miràcoi

(…)
tornà fora co’ calcossa de scont
soto ’a majiéta; fermàr el pòro
Nane ferìo de guèra e slongàrghe
chel brazhét de plastica sparìo
verso chea mànega che pichéa,
Smolfa, pontàdha ta só spaea
co’ un ago grando de sicurezha

“tàcheteo co’a còea. Pin
pian el cressarà”.

uscire con un oggetto nascosto / sotto la maglietta; fermare / Giovanni, il povero mutilato di guerra e allungare / quel braccino di plastica introvabile / verso la manica vuota che gli penzolava, / floscia, fermata sulla spalla / con una spilla da balia // “incollatelo lì. Pian / piano si allungherà”. (p. 133-4)


Da Àneme ambueànti (Anime ambulanti)

I contastorie

(…)
… Forestièri dea storia,
àneme raménghe e soitàrie, i se àssea drio
senpre, dó ridoeàdhe e un fià de maravejia,
un cit de sbigóea e ’l scarabòcio de un sogno.

I cantastorie – … Stranieri della storia, / anime raminghe e solitarie, / si lasciavano dietro / sempre, due risa e un alito di meraviglia, / un pizzico di paura e lo scarabocchio di una fantasia (p. 142)


1 commento:

maria stella ha detto...

Caro Fabio, ho letto i tuoi versi
in dialetto per coglierne tutta la musicalità e il significato.
Non è stato facile però ci sono riuscita e mi complimento per ciò che scrivi.
Versi bellissimi.
Ti abbraccio

Maria Stella Filippini