Ediz. L’Arca Felice, Salerno 2008
recensione di Vincenzo D'Alessio
La voce narrante del solista del nostro Sud, Domenico Cipriano, è riuscita a tracciare in questi anni un percorso non facile da seguire, foriero però di un’articolata essenza tautologica per le sfortunate vicende del meridione d’Italia. L’esordio poetico è stato il volume Il continente perso Fermenti, Roma, 2000 al quale sono seguite esperienze poetiche di varia natura, tutte articolate in perfetta armonia con il carattere “criptico” dell’Autore e un linguaggio altrettanto “solare” da rendere pienamente la vena poetica in tutta la sua energia.
Cipriano ci annuncia il futuro della nuova scrittura poetica, inscritta in un pentagramma di settime, quinte e sedicesime, tanto per restare in tema jazz, che viene dal Sud ma è pronta per scalare le vette della poetica nazionale, ascritta nelle belle pagine della buona letteratura contemporanea. Sono questi i prodromi che il Continente annunciato mostrava e la fede nella Poesia declamava quando scriveva: ”Cerco di dare volto agli oggetti / esposti, ai portafoto sulla credenza / a sedie e tavoli appena consegnati / attribuirgli un nome di possesso: / un’anima di riflesso.” (Il fauno, ediz. 2002).
In questo scrivere per “fare” il Nostro si avvicina all’idea di Poesia che Gianni Celati indicava nel maggio 2000 su un quotidiano provinciale: ”La poesia è l’arte delle parole che trovano una strada solo per effetto dei loro ritmi e della loro grazia” («Il Corriere», Avellino). Così accade per questa breve plaquette di versi arricchita da una tavola originale dell’artista Prisco De Vivo. La parola cammina su strade aride, in momenti sempre troppo difficili, di fronte all’invadenza della violenza che uccide, che non permette la Giustizia e la Libertà a nessun italiano sincero. Seguiamo i versi di questa prima composizione: ”Abbiamo una visione tumefatta delle cose / da qualsiasi lato giriamo la testa troviamo / aghi che ci pungolano gli occhi.”
Il poeta Cipriano diviene allora “il sarto” in nuce: l’arcolaio pronto a cucire il passato di una stupenda e poverissima civiltà contadina, con l’arido deserto delle megalopoli. Affiora la dolce prosodia che distingue la poetica di Cipriano: ”Rigiri / il bicchiere che profuma colmo di vino / e sorseggi la solitudine dell’uva, qui / dove la terra si contorce e la curva in lontananza / nasconde il fascio affiorato del faro.”
C’è tanta speranza. C’è la suprema lezione dell’Infinito leopardiano. Ci sono le note della terra e dell’anima stimmung alla quale il versificare del Nostro ci ha abituati.
Vorrei ricordare che quest’autore, nonostante la sua giovane età, è stato firmatario e ha condiviso le idee innovative del Manifesto dei Poeti Irpini, sottoscritto proprio nella sua realtà natale, dove si andavano forgiando le tumultuose anime poetiche di gran parte dei firmatari. Cipriano è nato poeta e l’altezza della sua maieutica è corrosiva, rilucente, metafisica. Questi versi lo dimostrano: ”Quanta dura scrittura scuce le mani / scortica mura atroci: amara impura / frase cercata oscura per la cura della / notte asfittica ricercata dalla veglia / sonnambula.”
Auguriamoci che queste voci del Sud continuino a vibrare nel coro della Poesia contemporanea.
giovedì 27 novembre 2008
Su L’enigma della macchina per cucire di Domenico Cipriano
Novembre 2008
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