venerdì 24 ottobre 2008

Su Ma il cielo ci cattura di Ardea Montebelli

recensione di Carlo Ciappi (noto fotografo, organizzatore e presentatore di vari eventi artistici e culturali e curatore di recital di poesia) v. anche Progetto Babele

Viene da porsi molte domande nell’accingersi a parlare del libro di Ardea Montebelli che ha un titolo singolare: Ma il cielo ci cattura. La singolarità risiede nel fatto di quell’iniziare il discorso con quel “Ma”. Viene pure da domandarsi se quell’inizio sia una provocazione per incuriosire il potenziale lettore, quindi attirarlo, oppure qualcosa di altro. Non ho dubbi che sia la seconda l’ipotesi giusta, quel “ma” senza nessuna altra cosa prima suona come l’interruzione di qualcosa, come un ravvedimento, accorgersi di qualcosa e quindi porre un termine al vecchio per iniziare un nuovo percorso, un percorso che condurrà a qualcosa di ancora ignoto, di latente nel cuore dell’autrice.
Gli illustri prefatori di questo libro hanno ben inquadrato con preziose parole, puntualissimi riferimenti e con perfetti raffronti quando Montebelli ha cercato di fermare quel qualcosa di sé, un giorno, un giorno qualunque, ma sicuramente uno speciale in cui ha avvertito la necessità di portare avanti la sua ricerca verso la verità. Nel suo pezzo d’apertura, Paolo De Benedetti, parla di “via” e di tutte le insidie che essa comporta nel percorrere quella strada non certo facile, ma anche ci conforta con la definizione della poesia di questa Autrice: “di ansiosa serenità”, la propria e quella dei fruitori di quel messaggio intimo che, inevitabilmente, si instaura tra la poetessa e il lettore di questa verticalizzazione degli strumenti di avvicinamento: a cosa? Alla verità.
Allorché un uomo si accinge a scavare, a ricercare dappertutto e principalmente dentro di sé, si trova al buio, si trova nella condizione di inferiorità di fronte alla “Luce” che spera di trovare. Ecco allora che mi è balzato in mente L’Heremite, uno degli arcani maggiori dei tarocchi, dove il vecchio o il saggio, rappresentato dalle sembianze del vecchio, appunto, dove si pensa possa risiedere la saggezza e proprio per questo la dedizione alla ricerca di qualcosa che assomiglia molto, moltissimo all’oggetto della ricerca di Ardea Montebelli: la verità. Ma il vecchio saggio è rappresentato anche sorretto da un bastone, su di esso una lanterna per dissipare le tenebre della non conoscenza, per facilitare il cammino di avvicinamento a quel punto di infinitesimale grandezza che si intravede laggiù, forse è meglio dire: ci pare di intravedere in fondo alla strada che abbiamo scelto di intraprendere, ognuno di noi che, coinvolti dall’autrice, percorriamo il riflessivo cammino insieme a lei. Questa figura dell’Eremita è intesa come la chiave della conoscenza impenetrabile e della trasmutazione o ascensione nell’ordine spirituale, presupponendo una perfetta armonia di ogni suo elemento. Nei secoli scorsi era pure denominata Diogene, alludendo al filosofo anacoreta, che viveva in una botte e viaggiava per Atene con una candela in cerca dell’ ”Uomo”, colui che disprezzava le convenzioni e le vanità.
Ardea Montebelli scava spagiristicamente intorno a sé, scava ed analizza i detriti mossi, quello che rimane dell’uomo che ha subito una macerazione nell’athanor della ricerca intima, la più interiore, e tenta di avvicinarsi alla meta, all’apice della montagna perfettamente conscia di quel “per aspera ad astra” a cui ogni essere umano dovrebbe essere preparato. Ecco tornare l’immagine di Diogene che cerca l’Uomo, la poetessa si fa Diogene anch’essa per capire l’uomo, spuriarne il superfluo e raccogliere in unico gruppo le qualità nobili rimaste, materia essenziale per cominciare il lavoro di avvicinamento alla conoscenza, qualità primaria per svelare la verità.
Conforta questa mia convinzione la poesia che si trova a pagine 49 che recita: “…offre tracce di alleanze / a lungo contemplate / nelle oscure caverne dell’anima. …”. Questo concetto di caverna mi conduce all’idea platonica del mito della caverna la cui simbologia, sin dai tempi più remoti, è l’archetipo dell’utero materno, simbolo di rinascita e di iniziazione in numerosi popoli. Per Platone questo è il luogo della non conoscenza, di sofferenza e di punizione in cui le anime degli uomini sono imprigionate come in una caverna, appunto, dagli dei. Un falò, al centro dell’antro, proietta sulle pareti le ombre di quegli uomini che ivi risiedono fin da fanciulli, una sorta di sole invisibile indicante la strada che l’anima deve seguire per raggiungere il bene e il vero; la caverna e le ombre, quindi, rappresentano il mondo dell’apparenza da cui l’anima deve uscire per contemplare il vero mondo delle realtà, quelle vere, il mondo delle idee, di quella sorta di creatività che spinge alla ricerca, diuturno lavoro dell’Uomo di buona volontà che aspira all’alto.
Sono le parole la chiave per aprire le porte che la nostra poetessa si è prefissa di aprire, varcarne quelle soglie sarà sollievo e ristoro nell’avvicinamento alla meta. Si è sdoganata presto dai vincoli della caverna, a pagina 25 sella sua opera, ci parla del suo errare su tutti i possibili percorsi, senza bussola di conforto, solo cieli ed astri, monta lo sgomento dalle mille domande od una soltanto, punto ben identificato, ma misterioso e fragile. Sono le parole la chiave, quelle taciute e presenti in lei in attesa di essere pronte all’esternazione, sono quelle ascoltate nelle letture della Parola delle parole, sono quelle sprigionate dal proprio cuore e composte a caratteri piccoli nel grande libro che ci porge. Sono le parole a scandire il tempo, il tempo dei giorni negli eremi, lassù dove il cielo sembra essere più vicino, parole di riflessione e di memento, parole che incutono timore nel pensarle e poi nel pronunciarle, come fossero macigni da rimuove sul percorso intrapreso, da frantumare con minimo sforzo una volta saliti su un ulteriore gradino sul cammino della conoscenza.
È la bellezza, più volte punto di espressivo riferimento della nostra autrice, che spinge in alto verso quel cielo che ci cattura. E’ il cielo il simbolo attraverso il quale, fin dalla notte dei tempi, si ispira la storia dell’umanità, la credenza di un essere divino celeste, creatore della terra e regolatore supremo di tutte le cose. E’ il cielo la manifestazione diretta della potenza, dell’eternità, della sacralità e della trascendenza divina che si rivela direttamente nell’inaccessibilità, in quellla celeste ierofania inesauribile per l’uomo e il suo scarno sapere.
È la scrittura elegante, dovuta al rispetto del tema trattato, la massima espressione di Ardea Montebelli in questa opera, preziosa e chiara, intima e comprensibile ad altri nello stesso tempo; di scritture ne ha impiegati due tipi: quella della penna che sulla carta ha lasciato un testamento di quello che era e la speranza di quello a cui aspira, ed un’altra quella che la luce ha per lei scritto sulla pellicola contenuta nella sua fotocamera, compagna fedele ed àncora di conferme, nel suo peregrinare di eremo in eremo. Insieme a lei, quella fotocamera, ha interrogato pietre ed antri, amboni ed altari, luci filtranti e luci apparenti nell’ombra dello spirito. Anche per questa scrittura Montebelli si è avvalsa del metodo più complicato tecnicamente, ma atto a restituire una metonimia di rapporto con la luce variata, diffusa, modificata tramite l’impiego della pellicola all’infrarosso, croce e delizia di ogni fotografo, ma calzante sintassi nell’ulteriore modo espressivo dell’autrice, la fotografia, altro amore non celato di questa artista. Sono gli stupendi bagliori, la profondità del grigio dei cieli, nel portentoso linguaggio del bianco/nero, ad avvicinare l’essenza delle parole al sentire fotografico che usa gli stessi termini concettuali. Nulla si può svelare se non ricercato con forza e vigore, la forza dell’onesta volontà e la vigoria delle energie da dedicare alla ricerca, quella che passa dentro di noi, si deposita nell’anfora della nostra anima per poi versarla nel lago del nostro essere, depurato dalla ricerca e bonificato nella purezza delle acque prima palude ed ora fluente speranza.

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