mercoledì 1 ottobre 2008

Su Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d'inverno


recensione di Narda Fattori

Stringo fra le mani questo librettino esile, con i suoi versi lievi e dolenti come un dolore cronicizzato, a cui si è assuefatti, ma che di tanto in tanto si percepisce nuovo, lacerante.
Sono le scarpe sporche di sabbia anche d’inverno (bel titolo metaforico), sono la consuetudine ad una vita che ha circuitato un confine e non riesce a trarsi oltre: “L’esame? Il lavoro? La nonna? La bambina?/ … Il tuo cuore? / Una sottilissima nebbia li avvolge / e non chiedo… potrei…”
Stefano ha colto l’incapacità di farsi uno e nessuno; quando svela l’uno coglie l’amarezza di un percorso da nulla, consueto, inadeguato, di comportamenti e gesti che non riescono a travalicare la loro nullità per farsi oltranza e speranza. Ha anche colto il correlato di questa incapacità: la bruciante sensazione della solitudine che gela e fa dell’andare quasi un vizio, un mestiere per vivere, un passo avanti l’altro, nello stridore dei gabbiani nei colori del tramonto che rimandano solo alla notte. È molto generazionale la poesia di Stefano: censisce la difficoltà del vivere in un tempo che ha perduto le lancette e batte sempre la stessa ora, dà voce alla perdita di mete e di obiettivi: finito un amore (e si sa quanti amori finiscono) perché non si è saputo coltivarlo, proteggerlo come si sarebbe dovuto, ecco che “Mi mancano perfino le spille / pure quella che sfilasti dalla coda dei capelli / raccolti / col gesto più banale / che non so dimenticare”. È perduta la meta, si resta un uomo che cammina.
Le poesie di Stefano hanno la nostalgia di un bene che non si è saputo apprezzare mentre lo si possedeva e che alla sua mancanza rivela la sua valenza esistenziale; esistenziale appunto, perché i versi del libro non sono solo versi dell’amor perduto, ma della perduta forza, della perduta oltranza, della scoperta di una nescienza amara e consueta.
Il quotidiano diventa il limite breve del tempo e dello spazio, una categoria dell’essere, forse la sola con quel poco che riusciamo ancora a trarne fuori “vita d’altri finalmente con la tua / finché la notte sa già del mattino che viene.”
Si legge come un diario e si torna a leggerlo per scoprirne profondità solamente sospettate, celate in un dire e in un fare di tutti i giorni. Eppure Stefano non è così digiuno di poesia: nei suoi versi si sentono un timbro di basso con qualche variazione sulla corsa dei suoni acuti, una padronanza del dettato, delle inarcature, del ritmo.
Direi che ha raggiunto traguardi di rispetto, poeticamente intendendo.


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