martedì 25 marzo 2008

Narda Fattori e l'antico stupore della parola

di Matteo Veronesi

Una esponente di assoluto rilievo della grande fioritura di “poesia femminile” (ammesso che simili classificazioni abbiano un senso e un valore) cui si è assistito in Romagna negli ultimi anni (basti pensare a Rosita Copioli o a Fiorangela Arfelli) è certo Narda Fattori, il cui libro più maturo, equilibrato e compiuto (quasi sintesi e vertice del suo ricco e sfaccettato percorso creativo) è forse Verso Occidente, edito nella minuta e preziosa collana Terremerse dell'editore Fara (Santarcagelo 2004); una categoria, questa della poesia femminile, che – per inciso – andrà intesa, oggi, al di fuori di qualsiasi unilaterale colorazione ideologica e polemica, e indicherà più che altro un'intima, raccolta e intensamente vissuta dimensione esistenziale, culturale, espressiva – uno sguardo, gettato sul linguaggio e sul mondo, obliquo, defilato, lievemente straniante, “altro” rispetto al logocentrismo, al razionalismo ostinato e severo in cui rischia di chiudersi, proiettato sui campi del pensiero, il “principio maschile”.
Ma se la poesia femminile tende, in alcune sue espressioni – basti pensare a Jolanda Insana – a ripiegarsi su di una carnalità e una corporeità esasperate, accentuate in modo quasi espressionistico, rivendicate in maniera quasi irosa come prerogativa, emblema, dominio, quella di autrici come Carolina Carlone, la già citata Copioli, Maria Luisa Vezzali o, appunto, Narda Fattori è incline, invece, a muoversi nella sfera più serena e tersa di un equilibrio fra modernità e classicità, fra i richiami che salgono dagli abissi indistinti del preconscio, dalle profondità dell'origine e la lucidità della coscienza critica, della consapevolezza e della ricerca linguistiche ed espressive.
Come nel discorso filosofico di Maria Zambrano o di Simone Weil, così anche nella poesia di queste autrici la parola si sottrae alla “violenza della verità”, ai dettami di un logos autoritario, totalitario, rigidamente razionalistico – ma non per questo si abbandona ad un cieco irrazionalismo, anzi persegue una propria “logica poetica”, un proprio coerente e coeso discorso culturale, pur sottratto ai condizionamenti e ai gioghi del gergo ideologico, dell'opacità quotidiana e della chiacchiera mediatica.
Anche nelle sue più consapevoli espressioni poetiche, come in quelle filosofiche, la coscienza femminile (non necessariamente femminista) conferma di poter offrire uno sguardo conoscitivo ed esistenziale “altro”, innovativo, spesso imprevedibile, sempre aperto all'ascolto e alla ricezione del nuovo, del desueto, dl segreto.
«Uccidi il padre e la madre / e che il sacrificio si compia senz'ara / alla fiamma che arde fatua / di sordo rancore immemore». Così la Fattori evoca, in versi di grande, direi archetipica potenza, i fantasmi dell'immaginario tragico, il tabù freudiano e nietzscheano dell'uccisione del padre, della recisione dei legami, dell'allontanamento traumatico, eppure così strenuamente desiderato e perpetrato, dalle radici e dalle origini. «Cassandra grida / l'ingorda ferocia / che corre sui binari di morte / con la memoria abrasa». La parola-profezia del discorso poetico, pur essenziale e rivelatrice, si vota ad un silenzio criptico ed iroso; la memoria è “abrasa”, sembra dissolversi in oblio e cancellazione, nel momento stesso in cui anela ad essere per sempre fermata nel monumentum della parola scritta.
E la figura di Cassandra pare rinviare al mondo delle Troiane di Euripide – alla eremia, all' “orrido deserto” che discende sulle rovine riarse, sugli altari desolati, sui templi rasi al suolo, alla notte ardente in cui danzano insieme Imeneo ed Ecate, l'amore e la morte, lo splendore e le tenebre, il piacere e la maledizione, gli spettri del desiderio furente e della gioia amara.
E una bellezza antica e sempre nuova, confortata dalla voce dei classici, è il solo balsamo, il solo lenimento che possa arginare e ricomporre le ferite e gli strappi della perdita (in particolare quella, assoluta ed emblematica, della Madre, la cui figura ieratica, ma insieme umanissima, è rievocata nel fine e struggente Canto a Maria, che chiude Verso Occidente).
Il male si attenua e si stempera, forse illusoriamente, in omerici ed eschilei «tremiti leggeri / come l'onde del ceruleo mare». Sulle memorie perdute discende, quasi come nell'Ade virgiliano, «una nivea fiorita»; la «terra materia» che richiama inesorabilmente a sé tutti gli esseri pretendendo l'ultimo pegno dell'esistere è sovrastata e rischiarata dalle saffiche e virgiliane «silenti stelle», da un leopardiano «silenzio immenso».
Ma, infine, baciare «dentro il palmo» vecchie mani amate, consumate dagli anni, è – sulla scia di Orazio e di Foscolo – «come morire dentro un'urna». La parola poetica si muove e vibra, ancora, sul limite ombroso e chiaroscurale di vita e morte, memoria ed oblio, identità e cancellazione.


NOTA

Queste pagine integrano il mio saggio sulla poesia secondonovecentesca in Romagna apparso sul «Lettore di Provincia» (a. XXXVIII, fasc. 128, gennaio/giugno 2007, pp. 61-88). Un saggio, quest'ultimo, che del resto non può né vuole in nessun caso porsi come un panorama completo ed onnicomprensivo di uno scenario così vasto e sfaccettato, ma solo offrire uno spaccato ed una visione particolari, intonati alla ricerca di un equilibrio e di una vitale dialettica fra il richiamo agli archetipi storici e culturali e la coscienza vigile e problematica del moderno (o del postmoderno).

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