venerdì 22 febbraio 2008

Il silenzio che genera i versi

di Alessandro Ramberti, ispirato all'incontro di Francavilla al Mare

La poesia agli occhi di molti è “vanità” nel senso qoheletiano del termine hèvel: un “fiato” che non sembra avere grande importanza, un vapore che si dissolve presto, senza la capacità di sommuovere che ha la musica né la facilità icastica di uno slogan. Ma forse l’essenza della poesia è proprio qui, nel suo essere sfuggente e impalpabile eppure con una carica concentrata di energia che aspetta solo il lettore attento o abituato alla sue “frequenze”: se la poesia è gratuita, umilmente accolta come una pietra preziosa dal poeta che può (deve) certo lavorarla ma mai possederla, essa può raggiungere tutti e germinare in coloro che hanno orecchi per intenderla… Non credo nelle opere poetiche che siano eminentemente poesie-diario, autoterapeutiche, celebrative, esistenziali, commemorative o di denuncia: se i versi restano troppo vincolati all’occasione, all’evento o ai sentimenti dell’autore, questi rischia, nel migliore dei casi, di fare un buon esercizio di stile e più spesso di annoiare il lettore.
Sia il poeta che la poesia hanno bisogno del silenzio che decanta, prepara, accoglie, genera parole profonde, essenziali, scintille di verità.
Il silenzio è l’humus di una voce poetica autentica, e questa è espressione di un esser-ci in questo mondo, in una data realtà, con la consapevolezza che c'è però dell'altro. Se le nostre vite sono un intreccio di storie (in tutti i sensi che la parola può avere) la poesia ne illumina i nodi (che in senso positivo sono gli incontri e gli eventi che aprono nuovi cammini e prospettive), ma sempre a partire dal vuoto delle maglie in cui ha sede quel silenzio che la lingua, ogni lingua umana, tenta di scandagliare: può riportarne solo qualche eco che comunque investe la realtà impastandola di senso, rivelandola a coloro che vi sono immersi, autentificandone i pensieri e quindi gli atti. I poeti veri sono dei fari che possono aiutarci a navigare l’elusiva superficie senza suono che è la lavagna oltre il tempo in cui sta scritto il destino di ogni uomo. Siamo dunque d’accordo con quanto afferma Gabriela Fantato:

«La poesia che mi preme leggere è quella dove l’Io del poeta sa “farsi umile”, gettandosi nelle cose sino all’oblio di sé stesso tanto da “vivere nella carne” l’incontro con il mondo, direbbe María Zambrano, per conoscerne l’angoscia e la morte, scorgendo però anche la possibilità della gioia e la continuità dell’umano. È da questo “doppio sguardo” che nasce la poesia che ho più volte definito realismo intensivo.» (cfr. “La Mosca di Milano. Le riviste: il canone e il realismo intensivo, in Atti I Fiera dell’Editoria di Poesia, Pozzolo Formigaro, 23 giugno 2007, Format-La clessidra, Novi Ligure, 2007)

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