giovedì 17 gennaio 2008

Su Le mie scarpe sono sporche di sabbia anche d'inverno

recensione di Vincenzo D'Alessio, G.C.F. Guarini

Non risulta di facile lettura la raccolta poetica di Stefano Bianchi uscita presso FaraEditore nello scorso dicembre. Somiglia ad un soffice manto di velluto, orpello di un disagio raccolto in diversi anni di scrittura, sofferta e misurata nel decalogo della letterattura nazionale. Si raccolgono tra i versi le contaminazioni di grandi autori del Novecento come Montale, Saba, Pavese e un omaggio a Baldini nell'esergo.
L'anafora resta il punto di forza della poetica di Bianchi, utilizzata in diverse composizioni, come utile rafforzamento del moto compositivo che sposta sulla chiusa del verso il movimento del verbo.
Una poesia asciutta, che non ama il superfluo: versificare il percorso interiore di un “amarcord” eccelso, avvezzo ad ogni anima disposta all'ascolto. La paura è un mezzo per raggiungere la conoscenza. L'Amore è presente come l'acqua di un fiume sincero, aperto nella sua fuga verso il mare-universo umano.
«Aspettare un futuro» (p. 23) è la malattia dell'Occidente, del poeta che spera per tutti e per sé: «Il bimbo immemore / che di tutto s'innamora» (p. 24). Questi sono i poeti, affamati di poesia e di vita: «Camminano. / E il male li porta / è questo tumore d'essere nati / che tutti ci accompagna.» (p. 27). Richiamano questi versi quelli di Pavesa della poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La troncatura dei verbi è un richiamo allo studio dei classici, come l'uso sapiente del costrutto analogico concede un respiro lungo al verso: «Mi si spalancano gli occhi sul cuscino della notte» (p. 14).
«Fra le barche sedute sul porto / in fila come bimbi alla scuola / per l'assurdo piacere / di una nostalgia.» (p. 39) richiama la poesia Trieste e una donna di Umberto Saba. Sono belle queste contaminazioni che danno ai versi di Bianchi un'anima gentile, unica, innamorata della vita che è bella in quanto ricercata. Ma la ricerca è in questi versi il fluire, lo sporcarsi ogni giorno della sabbia umana che tutti ci rende vivi, partecipi dell'avvenire, del mutamento: «E anche fosse solo morte che ci aspetta / la strada che ogni giorno c'imolvera le scarpe» (p. 41).
Questo il disagio: dell'Umanità o del Poeta?
Meglio chiamarlo con uo vero nome: questa è la via?
Bene ha scritto Stefano Martello nella sua postfazione: “In questo libro si parla di amore” (p. 47) e noi per questo Amore cantiamo.

(v. anche qui)

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