martedì 30 gennaio 2007

È preghiera il silenzio lungo la strada (Deborah Coron)


La stazione

Abbacina la breccia bianca della massicciata
con le ombre viola in controluce;
il vento ostile gela ogni partenza
e scompiglia il miraggio:
alla rincorsa dell’ultimo treno
desideri d’evasione vengono trainati via
ma non partono mai davvero:
restano ad aspettare il mio ritorno.
Ogni treno uguale al precedente
sferraglia monotono e pesante
sui binari che curvano in fondo
prima di toccare un orizzonte
ormai divelto e stanco di viaggi.

Amo ogni profilo di queste colline imbrunate
che mi si stagliano incontro al tramonto
e patisco ogni loro mùtila ferita.
Le luci fumose della cementeria
impolverano ombre corrotte e mute
di vecchie cave e nuove distruzioni:
è questa la strada che torna a casa..
La stazione vuota si ferma nella notte aranciata.
Torno a percorrere le strade di gesso
e le franose case di cartapesta
del presepe costruito da bambina
parendo che tra queste balze cavate
nessun Bambino sia mai sceso.

***

L’ultimo pescatore

L’argine sterrato curva indolente
laddove scavalca l’angusto ponte;
col mulino poche case assolate
e le canne pigre nella golena
anche le cicale sono assonnate.
Qui mi fermo col cuore in piena:
rivedo dita ruvide ed esperte
calme insegnare quella lontana arte
alle mie goffe minuscole mani
di riparare e calare le nasse
ad ogni imbrunare per l’indomani
e trarle quando il sole nasce.

Colgo il guizzare lucido e ribelle
di pescigatto e scivolose anguille
in quel canale che torpido làmica;
la distesa di papaveri rossi
nella vigna dove non più si corica;
i pioppi muscosi riflessi
attorno a cui la sua barca legava;
l’odore della pece che spalmava
dopo avere stoppato ogni fessura
nella carena, il fasciame corroso
dalle intemperie inclementi, l’usura
di quello scalmo rugginoso.

Ora sul fondo immobile riposa
la chiglia nel letto d’erba limosa
non teme più la tempesta possente
che possa ancora la cima staccare:
nessuno per quell’usata corrente
andrà a prenderla fino al mare.

***

L’ambulante

Risali alle montagne in festive transumanze
notturna carovana di generazioni;
è preghiera il silenzio lungo la strada
temendo le stagioni e il tempo avverso.
All’alba la piazza sboccia d’ombrelloni
sventolano bandiere di vesti variopinte:
attendi le tue donne all’uscita dalla Messa.
Sciamano vociando e calano sui banchi
riempiono concitate le mani e gli occhi:
allegre frotte di corvi avidi sul grano.

Le conduci in stormo a trasvolare
parando l’abito prezioso della sposa tirolese:
il corredo veneziano da cent’anni intatto nel baule;
le trine ad ago del paramento d’un altare:
l’ultimo rito in una remota pieve
diserta dal gregge e dal suo pastore;
i maglioni anni ’70 dei pescatori norvegesi:
paziente incrocio di ferri davanti al fuoco
novellando nel lungo buio boreale;
i drappi arabescati della tessitrice afghana
obliata miseria [1] nella grazia più segreta [2];
il sari stampato della tintora indiana
madre bambina, sorriso rosso di betel [3];
i kimoni ricamati di minute figure orientali…

Prendi stracci usati a peso
rivendi storie e sentori cancellati
furono di donne abili, belle e rare;
tale ciascuna fai sentire:
di ogni signora e contadina
sei avaro e prodigo amante
nel tempo d’un baratto.
Acquista con poco la prescelta
ancora un minuto del tuo sguardo
il trofeo strappato a molte dita
il capo in cui riconosce parte di sé.
A casa, sul letto, lo spiega ancora
annodando nuova memoria
allo scarto d’altre vite.
Poi ripone nell’armadio i viaggi
e le illusioni d’un mattino al mercato.

[1] Fino al 2003 alle donne era proibito lavorare.
[2] Il Burka è un abito che copre completamente tutto il corpo, viso ed occhi compresi.
[3] Pianta dell’Asia meridionale le cui foglie masticate producono un’azione lievemente eccitante.

***

Mani cantastorie

Lascia che le mie mani ti parlino
senza voce dopo quest’ora scossa;
spogliati e ascolta: la tua pelle
ha atteso già a lungo memoria di me.
Non ho ereditato carezze
solo mani cantastorie instancabili
per inventare un alfabeto di tocchi
e svelarti occhi di bimbi sul viso;
mormorano le paure, gli urti
lungo la gola e sulla nuca.
Concorrono i lemmi tra le dita
che raccolgo dalle curve delle spalle
nel racconto dell’età felice: piantavo
ossi di pesca, ciliegia e melagrana;
canto lenti labirinti di petali profondi
frutti rossi, dolci, carnali…
Sostano le palme sul petto
a sanare strappi d’ali
e la schiena è diario aperto
di quotidiane rese e resistenze.
Traccio sul ventre le antiche fiabe
della prima neve: mappe del tesoro
e sentieri di molliche sui fianchi
per il ballo del re sulla rocca
e solletico i piedi di scherzi e giochi!
Poi indietro, per tutto il corpo gridano
le unghie e i polsi, solchi di terre arate
e gloria di Scirocco africano!
E ti narro ancora di me, azzurra
per farti mare e poi cielo. E pace.


***

La mia voce

Tutta muta questa notte.
Per l’atra e torbida tenebra
molta s’affolta la nebbia
che pigra giace: ora tace
il canto lento del vento;
fendo fra immensi silenzi
lande d’oblio e di pietra:
inseguo tracce di passi
sull’oceano, del tuo incedere
ancora, altro tra gli uomini
senza tempo per sostare.
Lunga cenere è quel sole…
Non ho pace: hai spartito
le acque dei miei dubbi e poi
richiuse sopra di me.

Solo la mia voce ora ti trattiene
ma non per dimenticanza: è lo strido
di quel gabbiano d’alto mare che ritorna
alla terra solo per fare il nido:
l’inchiostro tinge vele che doppiano
le più fredde e remote latitudini;
replica il barbaglio di un desiderio
si fa alba di speranza, certa sci¬a
inatteso guado che le maree
calme del Tempo, al largo, non invadono.


"il vento ostile gela ogni partenza": un verso che resta, come altri visivamente efficaci, sensualmente partecipati e a volte giocosamente allitterati, che costellano queste poesie in cui i metri classici, a volte sapientemente camuffati, ritornano a ritmare le ondate delle strofe. Debora Coron si sta laureando in Architettura. È attualmente coordinatrice dei quattro musei della Provincia di Padova (Museo Geo-paleontologico di Cava Bomba a Cinto Euganeo, Museo Storico-Naturalistico di Villa Beatrice a Baone, Museo Archeologico del Fiume Bacchiglione presso il Castello di San Martino della Vaneza a Cervarese Santa Croce, Museo delle Macchine Termiche “Orazio e Giulia Centanin” di Monselice) con mansioni di gestione, progettazione di attività didattiche quali laboratori e pubblicazioni, formazione del personale didattico ed organizzazione di mostre, seminari ed eventi culturali. Ha pubblicato “Le stanze dell’aurora” silloge in italiano e dialetto veneto, maggio 2005.

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