martedì 7 luglio 2020

Lettera a Anna Maria. Per Margherita e la poesia


Cara Anna Maria,

ieri ho finito di leggere il tuo libro Margherita Guidacci. La poesia nella vita.
Credo che un libro sia un essere vivente. Mi sembra più vicino agli animali, o forse alle piante, che all’uomo, soltanto per una questione di modi di generare. Infatti nell’uomo la trasmissione di virtù è sempre nelle mani di quel miracolo che è la libertà. Negli altri tutto è più diretto. Così un libro che ha in sé bellezza, genera bellezza, di necessità. Certamente continuerà a crescere: ciò che ancora la voce non è in grado di prolungare, vivrà fino ad allora in un silenzio fertile; spero che il resto illumini i gesti del giorno. Per adesso volevo però fermare questa vita che mi hai donata, nella gratitudine: perciò ti scrivo. Sei riuscita a farmi incontrare tanto intimamente Margherita e, al contempo, per le tue qualità di studiosa, mi hai permesso di guardarti nel tuo guardarla, insegnandomi così a guardarmi, sempre con occhi pieni di un amore che per coraggio non ha eguali.
Vorrei condividere con te alcune delle cose che più mi hanno colpito. Quelle che lo hanno fatto con colpi gentili, con la persuasione alta che sempre ha abitato l’esperienza dell’arte come quella della vita, lo spostamento che induce quando nell’urto, con echi variati, ti accompagna fuori dal tempo in un altro tempo, in uno dei modi del tempo in cui l’anima dialoga con sé.
Perciò inizio a raccontarti alcune parti di quel che è stato finora il mio percorso, per ciò che riguarda la poesia, i poeti e Margherita.

Fin da piccolo, ma soprattutto dalla fine delle scuole medie, la letteratura mi è stata maestra amata amica. Come la poesia si introdusse da principio non lo ricordo, ma deve averlo fatto piano piano prima di irrompere tutta insieme. Questo accadde pochi anni fa, tre all’incirca, e lo fece molto umanamente, passando per una brutta ferita d’amore. Così quella sera girovagavo per la camera, in preda all’inquietudine che da un po’ con un certo fervore mi veniva a trovare. Cercavo una musica che rispondesse alle sue esigenze, trovai Orfeo e Euridice di Gluck, ma durò poco; chiedeva un altro ritmo. Spensi immediatamente e mi voltai verso la libreria. Era forse Orfeo che continuava a chiamarmi, perché agguantai i sonetti che Rilke gli dedicò e li apersi. Crollai in lacrime senza alcuna forza nelle gambe che potesse sostenermi e trascorsi l’intera notte con loro. Era quella parola risorgente, in grado di donarla tutta la vita, a cullare me, che mi ero barricato in una sola delle sue parti. La poesia è poi diventata tanto altro, tutto ciò che è essenziale, ma fu Rilke il primo incontro.
Margherita mi fu presentata da Massimiliano Bardotti, il mio maestro. Poi la ritrovai nei racconti di Paola Lucarini, che ho la fortuna di conoscere. Rimasi spiazzato dalla potenza della sua poesia, quello scavo fino all’ultimo ripiego di vita intuito che nei versi scorre con la limpidezza dell’ acqua sorgiva. L’ho conosciuta come una poetessa pura, ammantata dell’onestà che dei poeti m’illumina la vista, che lo riconosci da lontano quando sulla verità costruiscono la vita. Eppure non ne ero innamorato come mi trovo ad esserlo ora: galeotta la sensibilità che ti ha guidata nel farci presenti certi eventi della sua esistenza e del suo pensiero, che la rendono un’ opera unica, un’esistenza che è opera essa stessa.
Ricordo la storia divina che la lega ad Arcangelo, il soldato cileno di cui s’innamorò al tempo della guerra. Un amore che non poteva compiersi nell’unione della coppia, “visto che in tutti e due i suoi passaggi di cometa – scrive all’amico Tiziano Minarelli – io ero libera (la prima volta ero ragazza, la seconda, vedova) ma lui no”. Un amore che pure si è compiuto nella distanza del tempo, ché tra la prima e la seconda volta che si sono incontrati, in quella coincidenza celeste alla stazione di Finale Ligure celebrata nella magnifica Finale [1], avevano trascorso quasi quarant’anni senza neanche sapere se l’altro era vivo; e nella distanza dello spazio, ché anche una volta reincontrati “c’è un mazzo di paralleli a dividerci – scriveva Margherita sempre nella stessa lettera – e la sede dei nostri appuntamenti è la luna”. E ha potuto compiersi perché era “amore d’anima” e, come dice in Porta d’amore [2], se  “nasce / in te, non finisce / in te. Sei la porta d’amore / attraverso cui passo / incontro all’universo, tendendo a tutto le braccia”.
Ogni volta che rileggo la lettera all’amico Minarelli rimango incantato dalla sua innocenza, la felicità con la quale accetta la proposta di questi di scriverle la prima recensione di “Inno di gioia”, l’opera che ha al suo centro questo amore d’anima, cosicché, dopo di lui, si possa impostare bene il discorso della critica, tanto abituata a ripetere il canto del primo gallo: è infatti immensa la sua paura che questo amore venga frainteso e lei possa venir considerata “la protagonista di un romanzetto rosa di Laja […]: di suscitare pettegolezzi, illazioni, squallide curiosità”, quando invece “non ha senso cercare le vicende personali, ma conta il fatto d’anima, il risalire da un amore individuale a un amore universale”. E ricordo questa sua storia divina perché non credo che la poesia possa esser qualcosa di diverso. L’amore ha da affrontare il dolore della separazione per compiersi: come si racconta in alcune storie, il cuore inizia a vedere soltanto allorché la ferita lascia emergere l’occhio. Il resto è una preparazione. Ricordi Margherita quando nel 1971 (prima di scoprirlo nella sua vita: come profetando), circa lo spartiacque che la perdita della moglie segnò nell’esistenza di John Donne, sosteneva: “è lo spartiacque della sua poesia. /Al primo versante appartengono le poesie dell’amore terreno. […] Al secondo versante appartengono le poesie dell’amore sacro, quando la natura di quel primo amore ormai lasciato alle spalle si rivela una folgorante preparazione di questo”. 
Certe volte ho l’impressione che parlare di questo appaia un ciarlare di qualcosa che manca di terra, un’elevazione al cielo molto fantasiosa che dimentica il terreno. Così mi ha fatto tanto ridere ripensare a un video che tempo fa vidi su Youtube, la registrazione di un concorso televisivo nel quale due poeti gareggiavano leggendo una poesia ciascuno. Margherita leggeva Il sentiero in salita sull’erba alta [3]. Splendeva di gioia: spesso più che ombrosi gli altri poeti. Prima di leggere il tuo libro mi ero chiesto perché avesse partecipato proprio con quella poesia, quando tante ne aveva scritte di più belle. Poi, appunto, ho letto la storia di quella poesia, nata di getto (sul retro di una cartolina che riproduceva l’omonima tela di Renoir) come felice augurio per il ventesimo anniversario del matrimonio di Arcangelo e sua moglie. Intuendo cosa del terreno le interessava, in quell’usare sfacciatamente la possibilità di uno spazio televisivo per fare gli auguri alle persone care, in me qualcosa è saltato, come se anche nel mio petto avesse albergato per un attimo il suo respiro infinitamente gioioso, profondamente presente.

Considerando questo, è ancora più sentita quella tua minuziosa e preziosissima analisi della distanza di Margherita da Rilke, poeta che tanto amava e che le fu da modello. Nella tua disamina ho trovato qualcosa che mi appare fondamento della poesia e che troppo raramente incontro oggi: l’accordo di poesia e vita. Margherita diverge da Rilke quando questi indirizza la sua poesia non tanto ad un volto che egli personalmente ama, ma “a se stesso, al proprio cuore, al lettore, agli amanti non identificati”. Egli attua magistralmente quell’arte del congedo alla quale sembra costringerci il tempo che passa e che tutto consuma. L’amore rivolge all’aperto, mira al distacco, l’ amante mira a liberarsi dell’amato, concentrandosi nell’amore come la freccia che si regge alla corda, nello scatto, se ne libera raccogliendosi “da più di se stessa”. Soltanto così può vivere la “durata”, il “per sempre” che vi è iscritto. A 25 anni, con la prima raccolta “La sabbia e l’angelo”, Margherita affronta tutto questo, gli cammina a fianco. Quanto mi solleva il modo con cui ci conduci sempre più in prossimità del suo sguardo, domandando soltanto della verità. Margherita ci insegna che è altro quel “per sempre”: è l’amore che nutriamo, coltivandolo, per il destino di un tu che è sempre incarnato e mai astratto.  Si trova orfana del padre, in tempo di guerra, innamorata di un uomo sposato che presto rimpatrierà. Poteva soffocare tutto: sarebbe appassita. Decide di farsi dono. E’ questa la dimensione che sceglie dell’aperto. Continuare ad amare, a nutrire quell’amore, con fiducia. Di questo è fatto il “per sempre”, l’eternità. E’ meravigliosa la citazione di Aldo Capitini: “Il capovolgimento è: prima l’amore, e quindi la certezza dell’immortalità altrui. Cioè se si deve affermare un’immortalità, noi non possiamo affermare che quella altrui. Solo lì, nella direzione del tu, si apre un pertugio. Tra la nessuna immortalità e l’immortalità degli altri, l’amore sceglie: che tu sia immortale.” E allora come può la poesia esser qualcosa di distante dalla vita, come può costituirne una fuga ? Margherita è stata poesia e la sua opera è stata la sua vita: e se gli uomini passano, le opere restano. Soltanto così la sua poesia ha potuto farsi profezia.

Quando la poesia è espressione di questo amore che è pura follia, quali domande potrebbero resistere sulla sua validità, sulla sua utilità ? Penso che l’unica domanda da farsi sia quanto coraggio richiede, quanto sangue siamo disposti a versare ? Perché a 25 anni, era il 1946, da poco passata la guerra che aveva tutta trascorsa in città, partorisce in breve tempo quella sua opera prima che “voleva esprimere un senso di comunione con i morti – scrive Margherita - e penso sia stato un libro che nasceva soprattutto da una grande pietà. Si muoveva su una specie di confine: cercando certi legami tra il di qua e il di là, come se cercassi di imboccare un ponte.” E tra il 1968 e il 1969 compone Neurosuite, nel periodo che lei stessa indica come il suo Nadir, il punto di maggior desolazione della sua vita. Il libro si presenta come il diario di una degenza in clinica neurologica, della quale aveva esperienza per le amicizie e le conoscenze che andava a visitare. Riscontrò successo, raccontava un dolore che diceva tanto sulla società. La sensibilità con cui aveva colto, a partire dalla sofferenza personale, la sofferenza degli altri, e se ne era fatta carico, fu presto spiegata ipotizzando un suo periodo di degenza, che lei non ebbe il minimo interesse a smentire. E’ autrice dell’Orologio di Bologna, de La Via Crucis dell’Umanità, non c’è dolore che non senta vicino, separazione che possa evitare. Ma l’indagine mossa da amore non può lasciare al dolore, al male, l’ultima parola. Sempre indica oltre, che c’è altro, nelle tenebre più fitte intuisce la luce, anche quando non la vede ne intuisce la possibilità. La poesia indica, legge le cose e le muove. La sua testimonianza ci dice che non sono secoli che la poesia è striminzita, ripiegata su se stessa, non sono secoli che abbiamo il coraggio – perché questo coraggio ce lo abbiamo – di chiederci, come nell’infinitamente citato discorso di Eugenio Montale, se “è ancora possibile la poesia”, senza renderci conto che equivale a chiedersi se è ancora possibile amare e che possiamo rispondere soltanto smettendo di amare oppure prendendo coraggio, stavolta nel cuore e non nella mente, e iniziando a combattere la paura di versare il nostro sangue per amore.

E so che non sono secoli che ci separano da una poesia altra, dalla poesia alta, perché c’è stata Margherita e ci sono tanti poeti che ho avuto la fortuna di conoscere o che ho la fortuna di leggere. Perché è una fortuna. La possibilità di amare non si dimostra, la si testimonia: a questo serve la poesia. Se la poesia smette di farlo, se smette di servire l’amore, smette di essere utile. Arrivati a quel punto potrebbe essere utile domandarci invece a che cosa serva la vita, ma ho la certezza che non arriveremo mai a questo punto. Perciò devo ringraziarti per la tua opera, per il modo in cui ti sei messa a servizio di Margherita, che ho scoperto in me il più grande poeta italiano del Novecento. Che il conoscerla sia stato così legato a circostanze tanto fortuite (sai bene che le sue opere sono introvabili, l’unica raccolta completa è fuori catalogo) mi fa ben sperare: chissà quante cose ho da scoprire che neanche lontanamente immagino.

Ancora dal cuore ti ringrazio per la bellezza che hai reso disponibile. Riluce di una linfa che ci è essenziale. Forse anche per questo i libri somigliano più alle piante, certe volte ci ricordano che anche noi somigliamo loro, in questa catena d’amore, anelli inanellati. Anelli del tempo[4] diceva Margherita.




[1] [“Finale”, la stazione dove tu salisti / nel mio scompartimento: mai vi fu nome più appropriato ! / Finale di quel viaggio e anche dell’altro, la mia vita, / in cui tu eri allora ricomparso / dopo una così lunga separazione / che misurarla dava le vertigini. / Le nostre mani si cercarono, occhi ansiosi evocarono / dai nostri visi segnati dal tempo / i due giovani visi d’una volta. / Il treno intanto correva lungo il mare, / il suo rumore come la frana dei giorni / lasciati indietro, andando verso un futuro / anch’esso pronto a franare: insulto / della vecchiaia, l’ultimo declino / che ci attende ed il nuovo / e necessario addio… Lo sapevamo, / ma le tue mani stringevano le mie / e più nulla contava. / Né conta ora. Il nostro è amore d’anima. / E noi siamo più grandi / di tutto quello che ci può accadere.”]

[2] [Il mio amore che nasce / in te, non finisce / in te. Sei la porta d’amore / attraverso cui passo / incontro all’universo, tendendo a tutto le braccia. // Sei la mia libertà, che oltre la diga spezzata / riversa le acque trionfanti - /ed apre tutte le gabbie, le vuota in un attimo, / empiendo il cielo di migliaia di uccelli / che non si lasceranno mai più imprigionare.]

[3] [Il sentiero in salita nell’erba alta… / Non sappiamo se esso si richiuda / sui nostri passi o rimanga / per quelli che verranno. Il nostro sguardo / corre in avanti, estatico, mentre noi camminiamo / nell’erba alta, ed è come nuotare / in un mare di riflessi e scintillìi. / L’erba, cresciuta nel dolore e nella gioia / sopra il sentiero, incornicia i nostri volti / ed ora li nasconde (li cancella / forse), ora li rivela / di nuovo, all’improvviso. Vibra col vento / che vibra anche nei nostri cuori. All’orlo / di quale azzurro s’arresterà il sentiero / o vi si perderà ? Frusciano i nostri passi / nel vento, come l’erba / ondeggiante, alla quale si confondono. / Un’ora od una vita fa lo stesso … Dammi la mano / stringi la mia. Non dobbiamo temere / l’ultimo tratto, più scosceso. Avremo ali / per terminare il nostro sentiero d’amore, / il sentiero in salita nell’erba alta.]
[4] [Degli anelli del tempo, che si aggiungono / sempre nuovi, furono alcuni così stretti / che ne ricordo solo l’orrore di soffocare. / In altri, larghi e informi, vagai smarrita / senza un sostegno a cui aggrapparmi. I più, / pallidamente indifferenti, si ammucchiavano / gli uni sugli altri, subito saldandosi / senza nemmeno un segno di sutura. / Solo a pochi e per poco è tollerabile / riandare. Ma almeno questo, l’ultimo, / di cui oggi si chiude il cerchio, resta perfetto / nel mio cuore: cornice d’oro intorno / a uno specchio di gioia. Chiedo solo / di serbar quest’immagine. E che a te / uno stesso fulgore la riveli / e la circondi, allo scader dell’ora, / nel tuo specchio gemello.]

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