Recensione di Paolo Polvani
pubblicata il 05/06/2020 12:00:00 ne La Recherche
Versi di gioia e di nostalgia
nella poesia di Vera Lucia de Oliveira
Perché erano ubriachi / di ogni cosa ed essere / creati da Dio
Il titolo dell’ultimo libro di Vera Lucia de Oliveira è un omaggio a Sandro Penna. Anche l’esergo in apertura del volume riporta versi di Penna. È anche una dichiarazione programmatica sulla scelta di un preciso indirizzo stilistico, si tratta di componimenti per lo più brevi, di fulminanti illuminazioni. Una coincidenza quindi non solo geografica, Penna era originario di Perugia, città nella quale Vera vive ormai da molti anni, ma anche di sensibilità poetica.
Nella postfazione al libro Maria Borio parla di “legami stilistici con i maestri di questa poesia – come Ungaretti e Penna – attraverso una sensorialità immediata”.
Nel libro colpisce la ricorrenza di alcune parole, una di queste è mondo, palpita molto mondo in questo libro, si respira una forte adesione alle vicissitudini del mondo, sebbene circoscritta al perimetro entro il quale si muove la personale biografia dell’autrice, nei versi circola molto pane dell’amicizia e molto vino della poesia.
La dedica del libro è per Ilde Arcelli, valida poetessa perugina ora scomparsa.
È anche spesso presente la locuzione “dall’altra parte del mondo”, chiaro riferimento ai luoghi di nascita e di provenienza di Vera, il Brasile, e probabile sorgente primaria della sua ispirazione.
Dominare due lingue, riuscire a esprimersi in versi in maniera egregia e compiuta, significa possedere non un solo mondo, ma una varietà di mondi. Non è né saggio né opportuno stilare una classifica della intensità emotiva raggiunta in alcune liriche, tuttavia quando il discorso è proteso nell’ascolto dell’altra parte del mondo, è lì che i versi denunciano e dichiarano un livello di coinvolgimento che inevitabilmente si riversa sullo stato emotivo del lettore e gli consente una viva consonanza.
Così commuove già dalle prime liriche “la voce del figlio distante che dentro / la notte veniva a svegliarla mamma / ti va di parlare con me oggi’”
E più avanti: “la notte è un grande orecchio / sento persino il letto / scricchiolare / mentre ti giri / dall’altra parte / del mondo”.
E poi una delle più belle e compiute, che mi piace riportare per intero, col bellissimo richiamo nel quale riecheggiano i versi di una delle più conosciute poesie di Penna:
Il mare è tutto azzurro
il mare è tutto calmo
il cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.
Vera esordisce in questo modo lineare, altrettanto epigrammatico e icastico nel dettato semplice dei versi:
Il mare qui è un orizzonte azzurro
di monti su monti a perdersi in fondo
nelle giornate limpide puoi vedere la mamma
dall’altra parte del mondo e se c’è luna
luminosa vedi il babbo piegato sul suo
orto d’estate che neppure da morto
ha lasciato.
Anche la parola corpo risuona spesso nei versi di questo libro, “c’è una ballerina in me / pronta a occupare il mio corpo…” e ancora “…questo corpo ardente…” e infine una dichiarazione fulminante: “nel grembo la parola è il corpo…”
Quel corpo labirinto dove il minotauro, quando hai aperto gli occhi, ha detto: ti verrò a cercare. Secondo una visione psicanalitica il mito del labirinto rappresenta la condizione edenica prenatale:
amava l’infanzia
e non poteva crescere
tutto attorno a lui parlava
di un grembo felice
in cui poteva nuotare
senza soffrire
dire mamma
ci sono
e lei
son qui
Anche la parola città ricorre, estensione naturale del corpo, propaggine modellata in forma di abito, di cornice necessaria: “in questa vertebra di città sono venuta a cercarti”.
In fine la lingua, quella lingua alla quale ti afferri sperando che regga, perché è l’unica certezza, l’evidenza minima dalla quale germogliano e fluiscono i temi cari alla poesia di Vera, l’adesione al mondo, l’infanzia come luogo degli affetti e dei ricordi, la parola come felicità e tormento: “il dire è la sola / cosa che ci resta”
Un libro in cui la nostalgia scorre come un fiume carsico, a tratti scoperto, esposto alla luce del sole, a tratti sotterraneo, una nostalgia a raggio variabile, perché ogni cosa, appena intravista o vissuta, nel riverbero della fugacità della bellezza, diventa sorgente e motivo di nostalgia, come se soltanto sfiorarla evidenzi la possibilità di una perdita, di un abbandono. E così la nostalgia, nel suo significato letterale di dolore del ritorno, diventa una forma per aderire al quotidiano, diventa l’atmosfera che accompagna ogni incontro e permea ogni verso. Fino dal titolo, con quel verbo “ero” al passato, che dichiara l’inafferrabilità della bellezza, che si può più facilmente cogliere nella luce del passato:
sotto la luce
la città lontana
luccicava nella sera
e pareva che si potesse
essere felice persino
nella pena
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