Aver
avuto una Palestina, aver conosciuto le mura di Gerico, e dalle crepe aver ascoltato
le urla nel Nazzareno,
e
di una folla di beati, averne
assaporato il silenzio infuso nelle vene anemiche, mentre le scosse lasciavano
i segni ai brandelli dell’identità, può
rendere un uomo, e una qualunque donna un
ebreo scampato alla morte, un sopravvissuto, un indecifrabile numero nella
memoria di chi
ignora
la matematica del cuore.
Nella
poesia è insita l’irrazionale ragione di una trasmigrazione, una corrispondenza
elettiva.
Categoria
sguarnita di uno spazio, l’anima, coma la notte della luce, perché è dovunque
che può trovare ristoro la briciola di un pane buono, non contaminato dalla
muffa dell’indifferenza.
È
un dialogo immaginario, quello di Caccamo con la Merini, che con sé porta
un’amicizia, l’introduzione di una storia familiare, l’esperienza di un
condiviso viaggio, il dono speciale delle parole, appena accennate,
nella
recondita rabbia di un non detto: non è legittimo derubare un uomo della
legittima eredità di un dono,
rimasto
incorniciato a lungo a
un muro forte di silenzio breve.
La
conoscenza di Gerico, il lungo viaggio in Terrasanta, il calice della
maternità, e di una storia che appartiene a tutti,che
è appartenuta a tanti non
possono estinguersi nel desiderio di un rogo, evaporando nella nebbia, nella
cenere dell’oblio.
Il legno deve continuare ad ardere, e prendere
vita.
E
Caccamo dipinge le radici, nel lirismo di un prosimetro che anela all’ombra
delle fronde, dove germoglia la meditazione, di ciò che è stato e che continua
ad essere, nella “comunità dei sani”-scriveva Basaglia- indifferenti agli
ultimi, ai miseri alle donne, ai barboni, ai diversi, alle vittime, agli
infermi dell’amore.
Anela
ai raggi di una resurrezione comunitaria, che sia la luce nella notte, una
follia che non discrimina la vita, non vi rinuncia, ma genera, feconda, una
poesia di vita.
Emanuele
Aloisi.
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