Rosalba Casetti, La voce salata del mondo, laboratorio di parole del Circolo La Fattoria, Bologna, 2018, pp. 90
recensione di AR
La poesia di Rosalba è attenta, un tempo si sarebbe detta civilmente impegnata: non teme di immergersi nella realtà, di rivelarne storture e orrori (“Stanno lì dondolando appena nell’aria ferma / fiori sbocciati sull’albero del male.”, p. 31) ma lo fa con occhio estroverso, sensibile e acuto, partecipe e solidale con le creature e con il creato: “Andiamocene come siamo, nuvole stracciate dal vento / (…) / a misura di un tempo verso lo zero. // Esiliati in una lingua che raschia e brucia / (…) / alla ricerca della parola capace di dire / la tenacia dell’erba…” (p. 9); “Il gelsomino butta fiori con forza fresca e selvaggia / un furore di luce abita il verde delle foglie. // Nel silenzio della casa senti camminare il tempo” (p. 14). Come si vede la scrittura è piana, di taglio che potremmo definire giornalistico, ma non priva di una empatica e a volte tragica ironia: “Niente resta / solo il dolore fiorisce. / Ma / non è il nostro dolore, / è dolore dell'altro da noi / carico di insignificanza.” (p. 25); “La notte nel deserto viene con un clic / un buio all’improvviso. Poi sono cascate / di stelle che sbiancano il cielo.” (p. 34); “Chiudersi nel perimetro della propria pelle / per non sentire l’urlo della vicina – la mente scissa.” (p. 51); “Il tuo corpo – un disegno nero di Goya – / traccia nell’aria spigoli acuti. / (…) / Appoggi il tuo silenzio alle mie parole” (p. 53).
Già i titoli delle sezioni che seguono quella iniziale (”Esergo”) ci forniscono una “guida” al timbro e al senso di questo libro: “Cronache”, “Altrove”, “Visite”, “Il punto della tenerezza”, “Frammenti”. Troviamo poesie sui migranti (“La storia diluvia sui loro corpi”, p. 22), sui viaggi, sulle relazioni famigliari, sull’ambiente, sulla situazione politica, sul quotidiano, sull’arte (“Il cane contempla la fine del mondo / mentre sprofonda lentamente nella sabbia / guarda con bocca straripante di silenzio / la densità terrosa dell’aria”, splendidi versi della poesia d’après Goya, p. 74), sul senso del nostro essere al mondo: “Per questo stringiamo nodi / perché la lontananza non batta sulle tempie / ma racchiuda il rifugio dove la mano / del mondo non possa raggiungerci.” (p. 72).
C’è una sotterranea lotta anche con la propria scrittura. Si sa che essa, e la scrittura poetica un particolare, ambiscono se non all’eternità a una durata maggiore di quella della nostra esistenza, eppure Rosalba, con rifermento alle parole Passa l’amore e lascia la sua ombra di Mario Benedetti, scrive: “sia benedetta l’amnesia, dono di sopravvivenza / che fa il giorno liscio, come un mare in bonaccia, / sgombra le notti dai sogni, coltelli che s’infilano nei giorni” (p. 11). Anche Borges, nel racconto Abele e Caino (magistralmente analizzato da Graziella Sidoli in Saggiminimi) si appella all’oblio come medicina necessaria al perdono: ma sia lui che Rosalba sanno che senza memoria, senza storia, l’uomo sarebbe un replicante, e la stessa parola impossibile e priva di significanza. Siamo dunque invitati a un oblio da intendersi come condivisione di una responsabilità (nessuno può portare da solo il peso della memoria di una colpa), perché siamo tutti chiamati a rendere conto, in vario grado, del male che l’uomo causa all’uomo, all’ambiente, a sé stesso… e questa raccolta ci aiuta a non volgere gli occhi altrove, a farci prossimo gli uni degli altri perché c’è “un ite missa est / che fa qualcosa del niente del giorno.” (p. 45)
recensione di AR
La poesia di Rosalba è attenta, un tempo si sarebbe detta civilmente impegnata: non teme di immergersi nella realtà, di rivelarne storture e orrori (“Stanno lì dondolando appena nell’aria ferma / fiori sbocciati sull’albero del male.”, p. 31) ma lo fa con occhio estroverso, sensibile e acuto, partecipe e solidale con le creature e con il creato: “Andiamocene come siamo, nuvole stracciate dal vento / (…) / a misura di un tempo verso lo zero. // Esiliati in una lingua che raschia e brucia / (…) / alla ricerca della parola capace di dire / la tenacia dell’erba…” (p. 9); “Il gelsomino butta fiori con forza fresca e selvaggia / un furore di luce abita il verde delle foglie. // Nel silenzio della casa senti camminare il tempo” (p. 14). Come si vede la scrittura è piana, di taglio che potremmo definire giornalistico, ma non priva di una empatica e a volte tragica ironia: “Niente resta / solo il dolore fiorisce. / Ma / non è il nostro dolore, / è dolore dell'altro da noi / carico di insignificanza.” (p. 25); “La notte nel deserto viene con un clic / un buio all’improvviso. Poi sono cascate / di stelle che sbiancano il cielo.” (p. 34); “Chiudersi nel perimetro della propria pelle / per non sentire l’urlo della vicina – la mente scissa.” (p. 51); “Il tuo corpo – un disegno nero di Goya – / traccia nell’aria spigoli acuti. / (…) / Appoggi il tuo silenzio alle mie parole” (p. 53).
Già i titoli delle sezioni che seguono quella iniziale (”Esergo”) ci forniscono una “guida” al timbro e al senso di questo libro: “Cronache”, “Altrove”, “Visite”, “Il punto della tenerezza”, “Frammenti”. Troviamo poesie sui migranti (“La storia diluvia sui loro corpi”, p. 22), sui viaggi, sulle relazioni famigliari, sull’ambiente, sulla situazione politica, sul quotidiano, sull’arte (“Il cane contempla la fine del mondo / mentre sprofonda lentamente nella sabbia / guarda con bocca straripante di silenzio / la densità terrosa dell’aria”, splendidi versi della poesia d’après Goya, p. 74), sul senso del nostro essere al mondo: “Per questo stringiamo nodi / perché la lontananza non batta sulle tempie / ma racchiuda il rifugio dove la mano / del mondo non possa raggiungerci.” (p. 72).
C’è una sotterranea lotta anche con la propria scrittura. Si sa che essa, e la scrittura poetica un particolare, ambiscono se non all’eternità a una durata maggiore di quella della nostra esistenza, eppure Rosalba, con rifermento alle parole Passa l’amore e lascia la sua ombra di Mario Benedetti, scrive: “sia benedetta l’amnesia, dono di sopravvivenza / che fa il giorno liscio, come un mare in bonaccia, / sgombra le notti dai sogni, coltelli che s’infilano nei giorni” (p. 11). Anche Borges, nel racconto Abele e Caino (magistralmente analizzato da Graziella Sidoli in Saggiminimi) si appella all’oblio come medicina necessaria al perdono: ma sia lui che Rosalba sanno che senza memoria, senza storia, l’uomo sarebbe un replicante, e la stessa parola impossibile e priva di significanza. Siamo dunque invitati a un oblio da intendersi come condivisione di una responsabilità (nessuno può portare da solo il peso della memoria di una colpa), perché siamo tutti chiamati a rendere conto, in vario grado, del male che l’uomo causa all’uomo, all’ambiente, a sé stesso… e questa raccolta ci aiuta a non volgere gli occhi altrove, a farci prossimo gli uni degli altri perché c’è “un ite missa est / che fa qualcosa del niente del giorno.” (p. 45)
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