martedì 30 gennaio 2018

Non per primeggiare vivo / scrivo perché vivo

di Aurora Zamagni

In questi giorni ho avuto la fortuna di intervistare Gladys Basagoitia Dazza, poetessa italo-peruviana. A seguito un breve sunto di quella che è stata la nostra chiacchierata.



costellazione assenza
Il suo ultimo libro: L'Iris della speranza
Non mi sono mai ricreduta riguardo a qualcosa che avevo scritto, ma di sicuro all’inizio non pensavo di pubblicare ciò che scrivevo. Il mio primo libro, seppur stampato quando ero molto giovane, non contiene nessuna delle poesie che avevo composto nella prima adolescenza, perché non erano scritte, ma conservate, come ricordi, nella mia mente. Spesso scrivo di getto, ma lavoro su ogni verso togliendo maiuscole, virgole, punti e sintassi e, prima di pubblicarla, posso riscrivere la stessa poesia otto volte. Penso che scrivere poesie richieda un lavoro artigianale, spesso è un parto difficile, però la tempesta è necessaria per raggiungere la serenità e la gioia che ci dà la nascita di un componimento. Una cosa per me è certa: mi sarebbe impossibile rimaneggiare una poesia “a sangue freddo”, perché non ho mai affrontato la vita in questo modo. Prima di scriverla, io la poesia la vivo, e questo intenso immergermi nella vita, entrare in empatia con la sofferenza degli altri, mi coinvolge: è inevitabile che il dolore degli altri mi commuova profondamente, mi scavi dentro. Tuttavia grazie alla meditazione, alla solitudine (che amo), al modo di fare silenzio, scrivo e raggiungo momenti di grande felicità. Anche quando rileggo le poesie dei miei libri mi emoziono profondamente, dato che richiamano alla memoria quello che provavo mentre le scrivevo. Ricordo ancora quando, appena undicenne, composi la mia prima poesia: Fame

Necesidad gris amarilla                 Necessità grigia e gialla

Dientes con ansias de morder        Brama nei denti di mordere
Corta que corta la cuchilla            Taglia e ritaglia la coltella
En el yeyuno y el ileón                  nell’intestino e nello stomaco
Jugos vitales que se pierden          Succhi vitali che si sprecano
En la dulzura del soñar                  Nella dolcezza del sognare
Tristezza honda irracional             Tristezza profonda, irrazionale


Per invogliarmi a mangiare e per farmi capire che era un peccato rifiutare il cibo, che a casa non mancava, mia madre mi raccontò della sua infanzia. Nata nella foresta del Perù da padre europeo e da madre indiana, a cinque anni, rimase orfana. La matrigna le faceva mangiare solo gli avanzi, facendole patire la fame. Mi descrisse la sensazione di dolore alla pancia che la fame le procurava, e dell’acquolina in bocca che aveva quando sognava di mangiare quello che le era negato. Tutto ciò mi rimase impresso non solo perché toccava la storia della mia famiglia, ma anche perché imparai a riconoscere i segni di questo dolore. Intorno a me c’erano bambini dagli occhi tristi a causa della fame. La tubercolosi dilagava, e tuttora, in Perù, ci sono bambini che muoiono per denutrizione. Adesso credo che mia madre, che mai era andata a scuola (solo da grande aveva imparato a leggere e sapeva solo scrivere il suo nome, giusto per non firmare con una croce), in un certo modo, senza volerlo, mi avesse dettato quello che allora scrissi.
Non ho mai sofferto l’angoscia della “pagina bianca”, tutto quello che ho scritto mi è arrivato non so come né da dove. Lascio che le parole fluiscano naturalmente, non dico mai “adesso scrivo su questo o quello”, aspetto che arrivi. E se le parole non arrivano va bene lo stesso, a quel punto mi rifugio in scritti di altri poeti che leggo con amore o in libri di prosa. Diversi anni fa scrissi:

Non per primeggiare scrivo

Scrivo perché vivo
Non per scrivere vivo
Perché amo vivo  

Non per primeggiare vivo

Per amare vivo

Le mie poesie nascono da una parola letta o ascoltata che risveglia il mio stupore, da un odore, anche tra i più semplici della quotidianità, dalla bellezza della natura, da ogni espressione dell’arte, dall’essenza delle cose, dei sogni, dal dolore degli altri con cui entro in empatia, da tutto l’invisibile che in me dimora. È un mettere d’accordo ciò che si sente dentro con le parole che si scrivono, così da sentirsi liberi, nel mio caso dalla lotta interiore fra due lingue.

Mi sentivo quasi obbligata a scrivere di dolori legati alla guerra o ad altre ingiustizie, ma per elaborare il lutto e quindi scrivere di perdite personali, ho avuto bisogno di diversi anni.

anche dal mare

imparai a unire le parole
a rendere pensiero l’emozione
ma non solo dal mare
dalla vita concreta
e dalla vita autentica dei sogni
facendo vita in me il mondo degli altri
l’anima delle cose

una realtà d’ingiustizia e miseria

mi dettò la struttura e il ritmo
scrivo però
non solo ciò che ferisce gli occhi

tutto si fa poesia

in quel magico spazio
dove nascono immagini
diventa vita il simbolo
propizio il sogno

(Polifonia, 2.000)



Riguardo alla sua femminilità, caratteristica che emerge dalle sue poesie, Gladys si è così espressa:


Io sono fiera d’essere donna, fiera di tutto ciò che mi fa diversa dall’uomo, e di scrivere certamente come persona, ma soprattutto come donna. Ho scritto alcune poesie che nel leggerle non fanno risalire al mio genere, però ne ho altre che non mi sarebbe stato possibile scrivere, se non fossi donna. Nel 1969 partecipai a un Concorso Nazionale di Poesia a Lima, con un libro inedito, vinsi il primo premio. Ancora oggi penso che il mio successo fosse dovuto allo pseudonimo con il quale lo inviai: Kafka, ciò faceva supporre che l’autore fosse uomo. Fu la prima volta che questo premio venne dato a una donna.


Nessun commento: