mercoledì 13 settembre 2017

La lingua madre di Elisabetta Sancino

analisi critica di Giovanna Menegus

La poesia di Elisabetta Sancino si propone al lettore in progress – in promettente, energica crescita – come «frasario scomposto della lingua madre», ricerca volta alle «parole interdette» di «cifrati poemi che non ho mai tradotto / nella lingua adamantina del giorno». Lingua madre si intitola una tra le liriche più significative dell’autrice, e potrebbe essere anche il titolo della sua prossima raccolta, destinata a presentare una selezione dei numerosi versi scritti di recente, in una fase che come accennavo pare particolarmente creativa e aperta a ulteriori sviluppi.
Lombarda, classe 1968, Elisabetta Sancino ha finora pubblicato una quarantina di poesie nella raccolta 
Frammenti viola (96, rue de-La-Fontaine, Torino, 2016), e altre in antologie e riviste, cartacee e online. L’ambito semantico della sua lingua madre è ampio, e vi si possono individuare almeno tre filoni: la ricostruzione interiore di un codice femminile-esistenziale inquieto e sempre vicino alle voci della natura e della terra; la frequentazione quotidiana, per lavoro e passione, delle lingue straniere: quella inglese soprattutto, con la ricorrente presenza di paesaggi, atmosfere e miti letterari anglosassoni (l’autrice parla in proposito di English mood); la lingua della poesia, con la sua «fame / di verbi all’infinito» e l’impossibile desiderio di «vivere senza coniugazioni / […] / la testa davvero libera / e potente / come Orfeo che canta sulle acque», così recitano i versi inediti di In libreria (Orfeo).
La dimensione su cui la poesia – e la natura, talora vissuta con atteggiamento zen – aprono spiragli è un altrove sempre necessario quantomeno come intuizione e prospettiva, come sfondamento dell’orizzonte della cosiddetta realtà («Oggi mi alleno ad andare altrove», Stilla, p. 38). Così l’incanto della primavera viene vividamente evocato, senza tuttavia esaurirsi naturalisticamente in se stesso: ciò che più conta è il suo offrire «indizi di un percorso ulteriore» (Indizi, p. 44).  E «indizi di un percorso ulteriore» è una pregnante parafrasi del titolo Frammenti viola – dove il viola è inteso dall’autrice come sintesi del rosso e il blu, ovvero «colore della metamorfosi, del mistero e della spiritualità».
Una dichiarazione di poetica e un appello al lettore sono affidati invece ai versi di Adrienne Rich posti come esergo-dedica del volume e tratti da Un atlante del mondo difficile, del 1991: «So che stai leggendo questa poesia […] / riscaldando il latte, con un bambino che ti piange sulla spalla e un libro in mano, / perché la vita è breve e anche tu hai sete. / […] / per poi tornare ancora una volta al compito che non puoi rifiutare / […] perché non è rimasto nient’altro da leggere, / lì dove sei atterrato, nudo come sei».
Contesto sociopolitico a parte, il riferimento all’autrice statunitense può valere sia per le situazioni individuali di conflitto affrontate in presa diretta, con piglio impavido e ricorso alla Fenomenologia della rabbia (titolo della Rich, declinato dalla Sancino per esempio in Congiuntivo trapassato, p. 15), sia, a livello formale, per il susseguirsi libero e rapido di immagini e metafore, che a volte trarrebbero vantaggio da una potatura: questi versi spesso esuberanti e sovrabbondanti trovano forse la loro dimensione migliore nel reading, laddove a una lettura individuale, sulla pagina stampata, possono rivelare momenti di enfasi o “facilità”.
Un altro modello dichiarato è Wisława Szymborska, e numerosi sono i testi in cui l’autrice si rappresenta in prima persona, come protagonista di efficaci quadri tra il narrativo e il recitativo: l’ironico Grillo parlante, p. 21, colloquio immaginario e indiretto autoritratto; Visita guidata, p. 25, quasi una dichiarazione d’amore per la non nominata Milano, colta tra i suoi marmi e «perduti toponimi» e «dove finiscono le ringhiere / e il grano in silenzio sale»: una città in cui ogni volta ritrovarsi fugacemente attraverso il proprio «riflesso sghembo sulle vetrine / quel mio pudore da figlia straniera»; Rubo libri, p. 30, che al pari di In libreria (Orfeo) ruota intorno alla passione per la poesia e la lettura. In Anatre in volo, p. 23, ritorna una Lombardia anfibia, a metà fra città e campi, terra e acqua («la natura non conosce limiti / sa sempre come sorprenderci / anche in questa campagna sfigurata / da superstrade e dormitori»), e attraverso il racconto di un anomalo primo giorno di scuola l’autrice ci viene incontro questa volta in veste di insegnante tentata di portare la propria classe sul Naviglio: «qui al fiume / dove nessuno si sentirà mai stupido o solo / qualunque sia l’altezza e la durata del volo».
Altri testi meriterebbero di essere presi in considerazione. In questa sede posso solo aggiungere che tra le pagine di Frammenti viola si trovano anche alcune poesie più brevi e concentrate: per esempio L’eterna quiete, che per le immagini notturne e allusive mi ricorda Alda Merini («ci congiungiamo come ombre fameliche / e generiamo gigli scarlatti / più beffardi dell’eterna quiete», p. 39). Mentre tra gli inediti spicca l’angelica vitalità di un Fanciullo alato, di cui cito qui i versi conclusivi:


Nel moto ascensionale del tuo corpo
ancora verde e scorzoso
nel porto insicuro del tuo abbraccio
turbini di uccelli si generano
s’ingrossa quel barlume di seme
da tempo sepolto nell’acidità della torbiera
in attesa della pioggia nuova
.




Presentazione e reading da Frammenti viola 
di Elisabetta Sancino
e Orfiche (Quasi estate) di Giovanna Menegus

Venerdì 15 settembre, ore 18
Libreria Odradek – via Principe Eugenio 28, Milano
Ingresso libero
Interviene Luciana Bianciardi

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