mercoledì 23 novembre 2016

Per Gladys: LA VIA DELL’ARCOBALENO



http://www.faraeditore.it/html/siacosache/arcoiris.html


Sono contento di poter parlare qui dell’ultimo libro di poesia di Gladys proprio in questo mese di dicembre, che vede il compleanno (importante) della nostra festeggiata, e che per una coincidenza (o congiuntura, non so se astrale) davvero inaspettata è anche il mese in cui ci sarebbe stato il compleanno di mio padre, il centesimo – 12 dicembre 1915, 12 dicembre 2015 –. E così lo posso ricordare per un momento – permettetemelo – proprio in queste aule dell’Università per Stranieri in cui per tanti anni è stato docente e in cui ha dato così tanto di sé. Ma io vorrei ricordarlo soprattutto, poiché questa sera parliamo di poesia – grazie a Gladys –, come poeta: un poeta del Novecento italiano, coetaneo (più o meno) di Mario Luzi e di Giorgio Caproni, con il segno profondo della lezione di Montale.
Ma è anche con commozione che ricordo che al mio posto, per presentare un precedente libro di Gladys, sedeva la nostra amica poetessa Brunella Bruschi, che ha avuto per la poesia di Gladys parole magnifiche, che non saprò ripetere. Qualche giorno fa c’è stata, nel Liceo nel quale Brunella aveva insegnato, una bella commemorazione con i suoi colleghi e ex alunni. È stata letta una scelta assai puntuale e coinvolgente delle sue poesie, credo che a Brunella avrebbe fatto piacere. E qui, nel libro di Gladys, ci sono due poesie a lei dedicate, che spero Gladys vorrà poi leggerci. Ma non vorrei intristirvi – intristirci – troppo, ricordando chi non c’è più: e proprio nel momento in cui festeggiamo la nascita di una cosa nuova, che viene comunque ad allietarci, come il nuovo libro di Gladys, le sue nuove poesie. Il fatto è che la poesia, e un incontro attorno alla poesia, sembra essere – come anche questo momento dimostra – una delle possibili realizzazioni (non dico l’unica) di quella compresenza dei morti e dei viventi che Aldo Capitini ci ha indicato. E lo dico in un modo semplice, come so dirlo io, anche se so che con il titolo capitiniano si tocca un complesso filosofico-religioso non semplice: noi abbiamo bisogno della compresenza dei morti e dei viventi. Perché nessuno che è nato può andare sprecato: nessuno che è stato padre o madre o figlio di qualcuno, data l’infelicità – in generale – della nostra condizione, il “basso stato e frale” di cui ci dice Leopardi nella Ginestra. Non possiamo sprecare neanche un frammento di questa possibile produzione corale di valori, altrimenti rischiamo che davvero non ha più senso niente. E allora ricordiamo ancora una volta lo splendido epilogo del Colloquio corale di Capitini, che della Compresenza è insieme l’anticipazione lirica e l’espressione più radicale e commossa:

                    Buona notte ad amici e ad ignoti,
                    ai morti riveduti nel lampo della festa:
                    come ognuno ama in atto tutti,
                    così tutti il sonno unisca, disceso senza lotta:
                    entriamo pacati nella notte grati alla festa,
                    dopo esserci aperti a lei.

Basterebbe sostituire la parola “festa” (i morti riveduti nel lampo della festa) con la parola “vita” (e, in subordine, con la parola “poesia”) per ritrovare nella poesia di Gladys, e in particolare in questo suo ultimo libro, lo stesso accento di autenticità, e una forma assai simile di spiritualità (alla fine del libro di Gladys, nella postfazione, Ramberti parla di “spiritualità laica”, e credo che abbia ragione. Anche se la lettura delle poesie, specialmente della sezione intitolata “Oltre l’immagine”, fa talvolta pensare a una incipiente – o forse da sempre latente, non so – sensibilità di tipo religioso).
È in particolare nella prima parte del libro (intitolata “I volti dell’amore”) che un’idea – o meglio: un sentimento - di compresenza attiva, viva, produttiva di valori trova il suo luogo privilegiato. E da lì si irradia su tutto il resto del libro, dandogli il suo senso più profondo e compiuto. Lo coglie benissimo il prefatore, l’ottimo esegeta della poesia di Gladys, Antonio Melis, quando dice che la tessitura poetica di Gladys “riesce in primo luogo a conservare la memoria, che trasforma anche l’assenza in una presenza”. Il critico Melis accompagna la poesia di Gladys dal 2003, se non sbaglio, da Acquaforte, fino ad oggi, cioè per tutta la fase in cui si dispiega la piena maturità artistica di Gladys: le sue prefazioni, finissime e puntuali, insieme all’accuratezza tipografica garantita dall’Editore Fara, con le sue belle copertine, sono un sicuro valore aggiunto alla già così valorosa produzione poetica della nostra autrice. Se prendiamo per esempio la Prefazione al libro Oceano di luce, del 2013, intitolata – leopardianamente – “Piacer figlio d’affanno” noi troviamo già tanti elementi critici utili alla comprensione di quest’ultimo tratto della poetica di Gladys, fino al nostro libro di oggi: tutti ricordiamo la poesia di Leopardi La quiete dopo la tempesta – la scuola almeno in questo una piccola parte positiva l’ha svolta -, da cui è tratto appunto il verso “Piacer figlio d’affanno”. La tesi è che l’unico piacere che ci è dato è la fine (temporanea) – meglio, l’interruzione – di un dolore, o di un’ansia. L’allentamento di uno spasimo (“uscir di pena è diletto tra noi”). Così, terminata la tempesta, con tutto il suo carico d’angoscia, il villaggio torna a rivivere, in una sorta di (illusoria) euforia (illusoria, e per questo tanto più commovente). Conosciamo la conclusione di Leopardi: la valorizzazione della morte quale estremo risanamento da ogni nostro dolore. Ecco, Melis rileva giustamente come la luce – presenza così significativa nella poesia di Gladys – nasca paradossalmente dall’ombra: “solo l’esperienza profonda del dolore – lui dice – permette di godere pienamente della realtà recuperata dopo l’eclissi”. E però la conclusione tragica di Leopardi non appartiene a Gladys. Vince la vita e la sua è una poesia in piena luce (luce e vita è un’endiadi tipica di Gladys): “a dispetto di tutto / celebrare la vita” è l’imperativo poetico che lei si dà, e in questa luce anche la “tenebra” appare come un dono, per il quale dobbiamo gratitudine (vedi Epifania del dono e Il verbo, nella sezione forse più impegnativa del libro). Il “motore” – se così posso dire – di questa espansione valoriale così feconda è, come si diceva, nella prima parte del libro, dove si svolge una trama memoriale e affettiva che “trasforma anche l’assenza in una presenza” (ricordate): ma io direi meglio, a questo punto,  per tirare le fila del nostro discorso, in una compresenza. La poetessa coglie i suoni del mondo intorno a sé come una minaccia, ma (dice) “la loro (dei 'morti amati') – la loro presenza è nel cuore”, e non è soltanto un conforto, come lei dice, ma – credo – qualcosa di più: è quello che, in definitiva, dà valore al nostro essere (e forse sì, in questo senso, ci “conforta”). È la poesia degli affetti familiari e amicali, anche dell’amicizia poetica, per le amiche e gli amici poeti, accomunati da una stessa tenace fiducia nella poesia (e noi lettori risentiamo nel cuore l’eco del bellissimo dantesco “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento…”). Ma non è solo un canzoniere privato, si apre naturalmente a una dimensione più ampia, se in uno di questi testi (Madre lingua, dove davvero la lingua è madre) noi troviamo un omaggio accorato alla lingua andina e agli accenti dell’Amazzonia, e dunque a popoli testimoni di una storia di sconfitta e annichilimento, a cui la poesia può ora dare almeno un piccolo risarcimento. E questa tematica (qui ancora implicita, avvolta nell’intimità dei ricordi più cari) si allarga poi in particolare nelle ultime due sezioni del libro – di cui la prima si intitola significativamente “Voci del dolore” – a raccogliere “l’amaro cantico della desolazione” – come dice un verso – nella condizione disperata dei profughi e dei perseguitati. Qui vediamo riaffiorare (proprio come dai flutti dei naufragi di migranti) l’antica – ormai – militanza di questa donna radicalmente pacifista (ci ricordiamo delle “donne in nero”), dalla parte sempre dei popoli oppressi e degli esuli. Che è la stessa cosa della sua poesia fiera e generosa, solo che grazie alla poesia la militanza/testimonianza trova le parole più commoventi e più persuasive, su di un piano che ci restituisce l’universalità del male o della fatica di vivere. Ma anche del riscatto. È sempre così, quando si tratta di vera poesia. Sentite (p. 119, Pratica dell’amore)


PRATICA DELL’AMORE

l’assidua pratica dell’amore amico
nutre la nostra fede quotidiana
l’impegno spirituale in pro del discernimento
e dello slancio per affrontare l’oscuro potere
e la crudeltà del male
alleniamoci ogni giorno con fervore
preghiera o meditazione
e soprattutto azione a favore della vita
e non solo nostra
anche della vita e della cura del cosmo
e d’ogni essere vivente
perciò siamo ancora in vita
amare e dare sono
il senso della vita
A Fabio Saini
   

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